Storia degli eroi anonimi che hanno salvato i libri. Il best-seller di Irene Vallejo

Ha scritto Vladimir Nabokov: “Siamo assurdamente assuefatti al miracolo che qualche segno scritto possa racchiudere immagini immortali, intrecci di pensiero, mondi nuovi con persone vive che parlano, piangono, ridono”. Irene Vallejo, giovane filologa, antichista e divulgatrice (Saragozza, 1979) ha saputo ritrovare quell’emozione grata e stupefatta in un’opera coinvolgente, che ha scalato le classifiche spagnole, raccolto una gran messe di premi, apprezzamenti autorevoli (Vargas Llosa, Manguel, Aramburu) e traduzioni un po’ dappertutto (Papyrus, trad. di M. Bedana, Bompiani, pp. 576, euro 24).

La storia del libro nel mondo antico è raccontata come una sorta di favola avventurosa, sottesa da un amore trepidante, tutto femminile e materno, per un bene da difendere contro tutto e contro tutti: disastri naturali, incendi, guerre, invasioni barbariche, fanatismi, dittatori, da Giustiniano all’imperatore cinese Shi Huangdi,  da Hitler e ai talebani. Cose magari già note, ma rivitalizzate in un contesto di emozioni autobiografiche e di continui richiami all’attualità. Potranno tornare utili anche nelle scuole, a dimostrazione che il sapere è anche una sorta di palpitante saga famigliare.

Come si sa, la scrittura nasce come sistema di segni incisi su tavolette d’argilla per inventariare i beni posseduti. Poi questi segni, diventati fonemi autonomi e combinabili tra loro, hanno consentito di oggettivare il pensiero e dunque tramandare storie, pensieri, esperienze, grazie a supporti sempre più efficienti: dai rotoli di papiro (i volumen), alla pergamena dei codici, alla carta e ora agli schermi digitali. Il passaggio dalle culture dell’oralità, tutt’altro che primitive (vi nascono i poemi omerici) alla scrittura, durato secoli, non è stato semplice o indolore. Celebre l’opposizione di Socrate e di Platone, per il quale la scrittura pietrificava la parola, sottraendola alla vitalità del rapporto dialettico tra maestro e allievo. Ancora oggi si discute se sia saggio affidare la nostra memoria a congegni esterni; ed è stata la memoria degli amici a salvare le poesie di Anna Achmatova dalla polizia di Stalin. Ma di fatto la scrittura ha costruito per la prima volta una memoria comune, espandibile e alla portata di tutti.

Ogni invenzione, ogni perfezionamento tecnico ha prodotto rilevanti mutamenti sociali e ne è stato specchio. La scrittura è rimasta appannaggio di una casta privilegiata e potente, gli scribi, ma presto i sovrani illuminati, da Alessandro ai Tolomei, hanno fondato biblioteche nel sogno erotico di riunire tutti i libri del mondo, come quella di Alessandria, annessa al Museion, avanzatissimo centro di ricerca sperimentale.

Il libro diventava uno strumento indispensabile di crescita e sviluppo, da acquisire a qualunque prezzo, come oggi il petrolio; e le biblioteche un simbolo di primazia: l’avamposto di società che a loro modo tentavano il cosmopolitismo, una ecumene culturale. Si imponeva la necessità della traduzione. Fiorivano i cataloghi (pare che quello di Alessandria occupasse 120 rotoli, cinque volte l’Iliade). Prendeva corpo l’istruzione, la Paideia, riservata ai maschi, prima in forma privata, poi pubblica, ma sempre un po’ terroristica.

Nel IV sec. entravano in scena i librai, più ambulanti che stanziali. Avevano un posto nell’Agorà accanto ai banchi di verdura, ma vendere libri era considerata un’occupazione servile. Anche a Roma la vera eleganza stava nel coltivare la mente, l’amicizia, la conversazione, la vita contemplativa. Quella società crudamente schiavista ma a suo modo meritocratica e inclusiva, si distingueva anche per la capacità di assimilare il meglio dei popoli conquistati. Di qui la deferenza portata alla cultura greca, che attraverso un sapiente meticciato diventerà la pietra miliare della cultura europea.

Anche i nobili romani si incapricciarono di quei beni d’élite che erano i libri. Le biblioteche importanti divennero agognate prede belliche, uno status symbol (Silla si impadronì di quella di Aristotele). La libido collezionistica dei parvenu romani, sorride la Vallejo, ricorda quella dei capitalisti americani del ‘900 o di Peggy Guggenheim, che comperavano la grande arte europea a prezzi stracciati. L’accesso al libro era una faccenda di relazioni, di contatti giusti. Solo così potevi farti prestare le opere che ti interessano e farle copiare. Gli autori, come ad es. Marziale, promuovevano se stessi regalando copie agli amici. Editare significava donare e solo i copisti guadagnavano qualcosa. Pensare di vivere con la letteratura era considerata una pretesa indecorosa.

In un libro ricchissimo di storie, personaggi, spunti, divagazioni, donne coraggiose malgrado la loro condizione minoritaria, colpisce la continua, affettuosa gratitudine dell’autrice per i tanti eroi anonimi, scribi, copisti, schiavi, monaci, bibliotecari, librai, maestri, che nei secoli si sono presi cura, in mezzo a mille difficoltà, dei tesori della scrittura e della memoria, di pensare a chi sarebbe venuto dopo di loro. Quello che ci fa umani sono proprio le navi di carta che grazie a loro hanno saputo superare tante tempeste. Adesso tocca a noi.

 

 

 

 

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