Francesco e il Sultano

Nel giugno 1219 Francesco d’Assisi s’imbarca per l’Egitto, dove gli eserciti cristiani assediano Damietta, deciso a superare ogni difficoltà per incontrare il Sultano. Vuole convertirlo?  Offrire un esempio di proselitismo ai suoi frati? O cerca il martirio? Dopo un anno, torna dalla crociata profondamente mutato. Ha  scoperto gli orrori della guerra e la ferocia degli uomini, ma anche il fascino di una spiritualità che ha molti punti di contatto con la sua e lo aiuta a trovare le parole del Cantico delle creature. Dovrà affrontare gli anni difficili della malattia, delle incomprensioni e di una fraternità cresciuta troppo in fretta.

Il nuovo romanzo di Ernesto Ferrero racconta l’episodio più rivelatore della vita di Francesco, inserendolo nel quadro corale di un’epoca in cui si muovono papi e imperatori, frati e soldati, mercanti e pellegrini, cronisti e pittori sospinti da sogni spasmodici. Ne escono  illuminati anche i retroscena di un falso d’autore, la prova del fuoco a cui il santo avrebbe sfidato il Sultano. Un’invenzione “politica”, autenticata dagli affreschi di Giotto ad Assisi, che ha occultato un modello di dialogo tra l’Europa cristiana e l’Oriente musulmano, fatto di rispetto e comprensione reciproca, che il romanzo cerca di ricostruire per la prima volta.

Con il passo d’un romanzo d’avventura e la precisione di una biografia, Francesco e il Sultano   svela la trama segreta dei racconti interessati che chiamiamo Storia.

 

Francesco e il Sultano in radio e in tv

Ernesto Ferrero a Fahrenheit con Loredana Lipperini

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Ernesto Ferrero ospite di Monica Mondo a Soul, TV2000

L’intervista di Loretta Cavaricci per Rai News 24

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Il servizio di Tommaso Ricci per Mizar TG2

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Hanno scritto:

Un libro bellissimo!

Lorenzo Jovanotti

 

Quale rapporto c’è tra un fatto di cronaca, nella sua ipotetica verità, la sua trasfigurazione in racconto, immagine o leggenda, e il significato metastorico che il tempo e la tradizione gli attribuiranno? Attraverso quali processi gli eventi umani, accertati da documenti, si traducono in patrimonio collettivo, in memoria? A un primo livello, si potrebbe supporre, questo passaggio avviene per riduzione di particolari che, lasciati cadere dal setaccio del tempo, distillano un valore più alto e duraturo. Ma forse è vero piuttosto il contrario se, come ricorda Ernesto Ferrero nelle pagine conclusive del suo Francesco e il Sultano, « auctor viene da augeo » e l’autore è pertanto «colui che accresce». Fatto, racconto e tradizione sono in effetti i tre poli intorno a cui si articola questo romanzo che nasconde in sé il fuoco dell’inchiesta e che si interroga su uno degli episodi più oscuri e paradigmatici della biografia francescana: l’incontro, nell’estate del 1219, tra il santo di Assisi e il Sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil, nipote del Saladino.

È il tempo della Quinta crociata, che sta per concludersi con la sconfitta per i cristiani, senza che Federico II abbia raggiunto la Terrasanta: la crociata stessa, peraltro, ha interessato quasi esclusivamente i territori egiziani, tra Il Cairo e Damietta, dove l’incontro avviene. Partito per l’Oriente con l’intenzione di arrivare con le parole là dove non riescono le spade e «realizzare la sua idea di fraternità nel cuore di una guerra», Francesco torna in Europa sconfitto, non essendo riuscito né a fermare la guerra, né a convertire il Sultano, né a trovare il martirio. Eppure l’episodio è stato tramandato con ben altra risonanza, come attesta uno degli affreschi giotteschi della Basilica superiore di Assisi, dove Francesco è rappresentato nell’atto di sfidare il Sultano e i suoi sacerdoti alla prova del fuoco. Secondo la Legenda maior di San Bonaventura, il Sultano avrebbe rifiutato di verificare la propria fede per mezzo dell’ordalia, riconoscendo così indirettamente la superiorità del cristianesimo.

Ma è davvero andata così? Possibile che Francesco abbia voluto ricorrere a una prova di forza? Come si concilia questa tradizione con l’immagine che Francesco tenta di offrire di sé, di prossimo agli ultimi? Un atto di protervia come quello descritto da Bonaventura mal si concilia con il Francesco dei lebbrosi, sintetizzata e portata alle sue più alte risultanze in una delle pochissime scritture di Francesco, il Cantico delle creature .

Muovendosi felicemente nella bibliografia francescana, e assumendo quasi la voce di Tommaso da Celano, primo biografo di Francesco, Ernesto Ferrero guida il lettore negli accampamenti crociati, nei campi di battaglia dove il sole del deserto arrostisce i vivi e i morti, tra le dispute dottrinarie che dividono i francescani stessi, in una guerra intestina che li lacera quando ancora Francesco è in vita. Eppure la parola che divide e ferisce è anche l’unico strumento capace di ricucire, di riportare all’unità nel segno della misericordia e del riconoscimento della varietà dei costumi e delle interpretazioni che si specchia nei coranici nomi di Allah. Quella parola è, nella sua universalità, quella del Vangelo che poteva essere raccolta «in qualunque terra e in qualunque lingua […] perché ciò che vi è di bene non appartiene ai pagani o ad altri uomini, ma a Dio». Per questo Francesco rifiuta di scrivere una Regola alla maniera benedettina o domenicana: il suo messaggio è nell’idea che «solo chi non ha niente può aprire la porta a tutti» e in questa apertura c’è il significato profondo del suo colloquio con il Sultano.

L’incontro con Dio non avverrà a Betlemme né a Gerusalemme, bensì nelle parole, in quelle di quei teologi musulmani che sotto una tenda a Damietta discutono con lui del vero Dio e gli insegnano i suoi novantanove nomi. Qui Francesco ritrova qualcosa del suo Dio e sperimenta nel modo più semplice quell’ideale della pace che è uno dei pilastri della sua Regola. È proprio nel campo nemico che Francesco fa sua la lode del creato, la medesima che ritroverà in punto di morte, nei versi del suo Cantico .

Ferrero ci restituisce un Francesco di carne e sangue, concretissimo nella sua debolezza e nei suoi dubbi, meno mirabile rispetto a quello dell’iconologia tradizionale, per questo meno irraggiungibile nella sua astratta santità: Francesco e il Sultano ci consegna una verità sempre sfuggente, alla ricerca della quale instancabilmente il gioco della letteratura continua a volgersi.

Chiara Fenoglio

“Corriere della sera/ La Lettura”

27 ottobre 2019

 

 

Un romanzo dal forte impianto documentario, nel quale Ernesto Ferrero torna a dispiegare gli elementi di erudizione e di invenzione che già stavano alla base del suo N., vincitore del premio Strega nel 2000. Con una bella prova di umiltà Ferrero ammette di essere venuto a conoscenza dell’incontro di Damietta in tempi relativamente recenti grazie alla conversazione con padre Michele Piccirillo, l’autorevole archeologo francescano morto nel 2008. Ad accrescere l’interesse di Ferrero è stata anzitutto la possibilità “riempire i vuoti del poco che si sa con certezza di Francesco con quello che finisce per essere orientato dagli interessi ‘politici’ di chi lo racconta”. L’oviettivo polemico coincide appunto con la Leggenda maggiore di Bonaventura da Bagnoregio, alla quale viene attribuita una funzione normalizzatrice (se non addirittura il tradimento) nei confronti dell’originario carisma francescano, del quale resterebbe traccia nelle biografie redatte da Tommaso da Celano e nella prima stesura della Regola. Sotto questo profilo, la posizione di Ferrero è molto severa e arriva a coinvolgere il piano complessivo degli affreschi assisiati, con una riflessione tutt’altro che prevedibile sul ruolo svolto da Giotto (…)

Le modalità di questo reciproco rinascimento (tra cristiani e mussulmani) sono ricostruite in maniera molto credibile da Ferrero, per il quale la vicenda del Poverello finisce di fatto per riassumersi nelle giornate di Damietta. Centrale, in questa prospettiva, è l’assimilazione del mendicante cristiano due volte Franjis (per i mussulmani tuti gli occidentali erano “francesi” e quindi “franceschi”) ai sufi, i mistici islamici depositari di una lettura sapienziale del Corano. Da loro il Francesco di Ferrero apprende l’orazione dei 99 nomi che alludono al mistero impenetrabile dell’unico Dio, in un’apertura cosmica che troverà compimento nel Cantico delle Creature. Nella rivisitazione narrativa di Ferrero anche l’idea di allestire il presepe di Greccio deriva a Francesco dalla memoria di una Betlemme “sfiorata e perduta”, con “le greggi che apparivano e sparivano in una nuvola di polvere e di belati”. E se i capitoli dedicati al viaggio verso la roccaforte di Acri hanno il piglio incalzante d’un romanzo d’avventure (non per niente Ferrero ha dedicato a Salgari un altro dei suoi libri, Disegnare il vento, del 2011), a risultare straordinariamente avvincenti sono le fasi della disputa teologica alla quale il Sultano partecipa solo saltuariamente, nelle ore di tregua tra una battaglia e l’altra, osservando pensoso quello strano sufi dagli occhi sempre arrossati, così ostinato nel difendere le ragioni della “Triade” cristiana a dispetto dell’intangibilità del Compassionevole. Francesco, da parte sua, preferisce insistere sulla misericordia, sulla semplicità che confonde la scienza del mondo, sulla povertà che vince la cupidigia e ogni altro affanno, compreso quello di desiderare il martirio senza ottenerlo.

Alessandro Zaccuri,  “Avvenire”,

2 ottobre 2019

 

 

L’ho letto con intensa partecipazione e con continua, crescente ammirazione. Hai saputo far rivivere, da dentro, un mondo di miseria e di spiritualità che si era perduto nei libri di storia ed era stato banalizzato dai santini. E hai saputo mostrare la ‘perfetta letizia’ nell’affollata e refrattaria realtà in cui (o forse da cui) è nata.

Giovanni Bogliolo

Rettore Emerito dell’Università di Urbino

 

(…) Un romanzo storico, un romanzo biografico, ma anche un romanzo corale di viandanti sempre in movimento, di eterni pellegrini agitati da una sete di assoluto, sempre in viaggio per l’Italia, l’Europa, l’Oriente. Ma lo si può anche definire un romanzo d’avventura, di cui ha anche il ritmo, e non solo perché è ambientato per buona parte in Egitto e in Palestina, dove è in corso una guerra feroce, in cui gli eserciti cristiani assediano Damietta. Quella che Francesco propone, in primo luogo a sé stesso, è l’avventura di una sfida estrema, sorretta da una tensione che non ammette soste: è il dono totale di sé agli altri, la sottomissione ad ogni creatura vivente, e implica una negazione radicale dell’istinto del possesso, dell’egoismo, della sopraffazione. Una sfida rinnovata ogni giorno, per ogni dove. Francesco è un santo itinerante, sempre in marcia verso qualcosa, insoddisfatto di sé, al centro di una vicenda collettiva che è la vera protagonista della storia. Un Medioevo formicolante di personaggi memorabili viene colto nella sua complessità e nelle sue mille sfaccettature come se fosse ripreso dall’alto, da un drone.

Il romanzo restituisce il Francesco mistico e rarefatto degli affreschi della basilica di Assisi alla sua fisicità, al linguaggio del corpo, al lavoro manuale che tanto lo appassiona, e che a lui sembra «un buon modo di parlare con Dio»: costruire capanne, riparare chiese, intrecciare canestri. Ridiventa un uomo tra gli uomini. La sua fisicità erompe anche nell’assoluta novità della sua predicazione, fatta anche di canto e di danza. Geniale uomo di spetta- colo e oggi diremmo maestro di comunicazione, con il suo “teatro di strada” Francesco an- nuncia la gioia del dare e del darsi per intero agli altri, e di amare Dio attraverso ogni aspetto della creazione, e in primo luogo la natura animale e vegetale. Offre il sorriso di Dio a un mondo tormentato dal dubbio e dalla paura. La sua fede non è intellettuale o libresca, ma nasce direttamente dalla corporalità, dall’amo- re per l’uomo così com’è, dalla misericordia, dal rifiuto di giudicare. Il paradosso è che l’autore del primo e tra i più alti dei testi della letteratura italiana, il Cantico delle creature, non è un letterato di professione, e anzi, proibisce ai suoi il possesso di libri perché possono provocare orgoglio intellettuale e autocompiacimento.

Ma il romanzo racconta anche la storia di un tradimento, di una contraffazione. Un tradimento che arriva ad attribuire a Francesco, per mano di Bonaventura da Bagnoregio — diventato suo biografo ufficiale — un gesto aggressivo e così poco francescano quale l’aver sfidato il Sultano alla prova del fuoco, poi dipinta da Giotto o da chi per lui ad Assisi. Questo falso d’autore nasconde la dirompente novità di un dialogo fatto di rispetto e di comprensione reciproca che avrebbe potuto cambiare il corso della storia e che il romanzo prova a ricostruire. La magnanimità, la liberalità, la vasta cultura del Sultano con cui Francesco può parlare a cuore aperto non sono peraltro un’invenzione romanzesca. Tra le novità che il romanzo introduce è proprio la profonda impressione che Francesco ricava della spiritualità musulmana in cui ravvede, ad onta degli stereotipi della propaganda crociata, molti aspetti condivisibili. L’uomo che torna ad Assisi, e affronta gli anni difficili della malattia e del disincanto, utilizzerà proprio le poetiche parole dei presunti nemici per il suo Cantico.

Alberto Brandani

“L’Osservatore Romano”, 3 ottobre 2019

 

 

Saremo giudicati soltanto per l’amore e per le sconfitte e tanto più se le sconfitte saranno rovinose e conseguenza dell’amore. La sbalorditiva vita di Giovanni Pietro di Bernardone, detto Francesco, frate di Assisi, è un capolavoro dell’amore costellato di sconfitte, tutto quanto è stato eretto in sua memoria e sua maggior gloria è un monumento alla sconfitta: un drappello di geni si raduna nella basilica, sono i contabili del tracollo, ogni loro pennellata di magnificenza celeste tratteggia il disastro. Il più illustre, Giotto di Bondone, saprà soltanto all’ultima riga di questo romanzo che ben altro che le stimmate e miracoli accostano Francesco e Gesù.

Gesù oppure Issa Profeta, Messaggero, Messia, Benedetto, il Seegno, l’Esempio, lo Spirito venuto da Dio, Servo di Dio, Spirito e Parola di Dio. Figlio di Myriam, ma non figlio di Dio, perché Dio non genera e non è generato. I sufi siedono attorno a Francesco e parlano di Issa, l’altro nome di Gesù. Sono trascorsi ottocento anni, oggi, dall’incontro tra Francesco e il Sultano. Quando tornerà al campo dei suoi, illeso, con la testa ancora sul collo, immune dal martirio, tutti guarderanno Francesco con sospetto. La sua salvezza dalla ferocia saracena può soltanto essere il frutto della negromanzia o del tradimento.

Le gerarchie ecclesiastiche e militari impegnate in Terrasanta nella Quinta crociata scansano con fastidio il lacero predicatore di Assisi. La fa facile, lui. Con le sue parole di pace, il suo entusiasmo, il suo saltellare gentile. Siccome della guerra non si viene a capo, e si contano i morti, si confortano i moribondi, si custodiscono i feriti, si convive con lo strazio delle carni, i lamenti notturni, lo sfacelo morale, siccome nulla di quello spettacolo crudele e necrofilo ha una sola assonanza con la parola di Cristo, Francesco si è proposto di convertire il Sultano. Senti bello, noi qui abbiamo altro da fare, gli dicono. Finché ce lo mandano, che s’arrangi.

Arriva frusto insieme con frate Illuminato, quegli altri non possono credere ai loro occhi, trascinano la coppia sbandata e ridicola davanti al Sultano al-Malik al-Kamil. Perché dovrei credervi e ascoltarvi,  che avete portato le spade e il sangue la frode in queste terre? Perché non tutti i cristiani sono uguali, dice Francesco, ci sono i retti  e gli iniqui, e io sono venuto per chiedere perdono delle iniquità e per parlare di Dio. Il Sultano lo farà ricoverare, lavare, rifocillare, che gli leniscano le ferite.

Trascorreranno tre giorni, Francesco e Illuminato, il Sultano e i sufi, a parlare di Dio, usano lingue diverse, ma scoprono di parlare con la stessa, della misericordia, della carità, del perdono, della speranza, della fratellanza, della gioia. I sufi elencano i novantanove nomi di Allah, Colui che provvede, Colui che eleva, Colui che tutto ascolta. Tre giorni in cui nessuno cerca di prevalere sull’altro – si sono riconosciuti, scrive Ernesto Ferrero giunto alla vetta della sua inebriante scalata- e quando Francesco chiede al Sultano di convertirsi, il Sultano dice no, non capirebbero, lo ammazzerebbero, e Francesco nemmeno ha la possibilità di un passo ulteriore, la santità laica, se è permessa l’espressione, è comunque toccata, le convenzioni umane non permettono altro, oltre il moltissimo: si sono riconosciuti.

Giotto torna spesso ad Assisi a guardare i suoi affreschi. Gli sono venuti da incantarcisi davanti: Francesco e il Sultano appostatissimi davanti a un fuoco, Francesco ha sfidato i sufi ad entrarci, sarà l’ordalia divina a stabilire dove risieda la ragione. È un Francesco spavaldo, sfrontato, padroneggia la tracotanza del Verbo: eccolo il mausoleo della sua sconfitta. Ha vinto la Chiesa della ridondanza che Francesco voleva ricondurre alla santità della polvere. Proprio lì, ad Assisi, la direzione di marcia, in quello che non è più il paese dove il figlio del mercante ed usuraio si spogliò delle sue vesti per offrirle in elemosina ai poveri, ora è l’elemosina dei poveri a finanziare la nuova torre di Babele.

Non si era mai vista una commedia simile e similmente repentina di un rinnegamento. Già negli ultimi anni di vita, quando giaceva cieco e spossato, e mormorava il novantanove nomi di Allah -nessun sincretismo, il ricordo di un reciproco riconoscimento, di un soffio di pace nella carneficina- attorno a lui e in nome suo ogni precetto si era ribaltato, i suoi frati si dedicavano alla proprietà fino allo sfarzo, tutti attutivano il digiuno, diradavano la predicazione, erano usciti dal mondo e ne rientravano a calici alzati, la stessa biografia del fraticello, ancora priva dell’ultimo capitolo- spazzava via ogni ambizione puramente evangelica che era la ragione sociale dell’ordine: Francesco è raccontato asceta, mistico, prodigioso, vendicativo come un Dio dell’antico testamento, lo si rende” più mirabile che inimitabile”, lo si sminuzza per farne commercio di reliquie. Francesco raso al suolo, la sconfitta e totale come l’amore, la stessa sconfitta lo stesso amore per quali due uomini si erano riconosciuti.

Mattia Feltri

“La Stampa/Tuttolibri”, 12 ottobre 2019

 

Con Francesco e il Sultano Ernesto Ferrero prosegue con coerenza la riflessione narrativa sul tema della storia e del suo racconto. Tutti i libri di Ferrero hanno questo essenziale filo conduttore,  da Cervo Bianco (1980) a Barbablù (1998, su Gilles de Rais), N. (2000, su Napoleone), I migliori anni della nostra vita (2005, su Giulio Einaudi), Disegnare il vento (2011, su Emilio Salgari), Amarcord bianconero (2018, sulla Juventus e la città di Torino).  Qui la posta è ancora più impegnativa, perché Ferrero parla di uno dei protagonisti assoluti della storia e della cultura mondiale, al centro da sempre di un primario e ininterrotto dibattito religioso e civile.

Il punto di partenza è un celebre falso storico e artistico: la rappresentazione dell’incontro di San Francesco con il sultano d’Egitto Malek al-Kamil nel 1219, a Damietta, nel corso della Quinta crociata. L’episodio è immortalato nell’undicesimo affresco sulla vita del santo nella basilica superiore di Assisi, tradizionalmente attribuito a Giotto. (…) Raccontare la storia e interpretarla. La storia di San Francesco è stata narrata innumerevoli volte ed è tutt’ora nodale e imprescindibile, il nostro tempo non può farne a meno.

I problemi posti da Ferrero sono tanti e cruciali. Ogni narratore, testimone diretto o indiretto, propone personali ricostruzioni e letture dei fatti, ogni biografia è anche autobiografia. La verghiana “mano invisibile” dell’autore non esiste; ogni mano rivela un timbro originale, In buona e in cattiva fede.

Anche l’arte ha le proprie esigenze espressive, come spiega Giotto all’inatteso interlocutore finale che gli chiede conto di quell’improbabile fuoco: “Dell’incontro con il Sultano parlava volentieri, ma della prova del fuoco non ha detto parola” . Il pittore replica: “È così importante, questo dettaglio che vi ossessiona tanto?”.”Gli uomini stanno nei dettagli, -sorrise debolmente il vecchio”; per chiudere infine il dialogo con la giustificazione artistica e antirealistica di Giotto: “Parlo da pittore. Senza il fuoco l’intera scena non regge. È stata pensata in funzione di quello. L’incontro con il Sultano così come ce lo racconta Tommaso da Celano non è rappresentabile”.

Questi sono alcuni dei motivi presenti nel libro di Ferrero, che si distingue per necessità morale, lucidità politica e qualità estetiche ragguardevoli.

Gino Ruozzi

“Il Sole 24  Ore”, 13 ottobre 2019