Emilio Salgari, “il padre degli eroi”, è lo scrittore che per quasi un secolo ha infiammato generazioni di italiani creando centinaia di personaggi avventurosi sospinti dalla forza travolgente d’una eterna giovinezza. Ma il vero eroe è lui, il giornalista veronese appassionato di ciclismo e di scherma, pessimo scolaro e lettore appassionato, che scrivendo romanzi d’appendice estrae dai suoi sogni di rivincita la “tigre della Malesia”.
Nominato cavaliere dalla Regina Margherita perché sa “istruire dilettando”, vive a Torino con la moglie, quattro figli e una pittoresca corte di animali in un caseggiato popolare sul fiume, sfiancato dai ritmi di un lavoro forsennato. Ma chi è davvero l’uomo che teneva ad essere chiamato capitano, sostenendo d’aver navigato tutti i mari del mondo? Da dove prendeva il favoloso repertorio di piante e animali con cui ricreava l’essenza stessa dell’esotismo? Perché i suoi personaggi sono agitati da un’ossessiva sete di vendetta?
A cent’anni dalla sua morte (un suicidio degno di un samurai) questo romanzo racconta quello che le biografie non riescono a dire accostando documenti autentici e d’invenzione, orchestrando le voci di un coro di testimoni: la moglie Ida, l’ex-attrice da lui chiamata Aida, minacciata dalla follia; i figli, i vicini di casa, i pochi amici, i compagni di una bohème più sognata che praticata, medici, giornalisti; ma soprattutto un’intrepida ragazza che vorrebbe farsi insegnare da lui i segreti della scrittura e lo accompagna nell’ultimo viaggio con tenera pietà tutta femminile.
Tutt’intorno si muove febbrilmente la città di Lombroso e De Amicis, lanciata nelle sue sfide tecnologiche: l’automobile, il cinema, i viaggi in pallone, i primi aerei, l’avveniristica Esposizione Universale che celebra i cinquant’anni dell’unità d’Italia. Il “forzato della penna” getta la sua morte in faccia a un mondo da cui non si sente accettato. È il 25 aprile 1911.
Raccontando la vita difficile di Emilio Salgari, questo romanzo esplora il margine sottile che corre tra la realtà quotidiana e l’immaginazione, tra la vita e la scrittura, tra quello che siamo e quello che vorremmo essere.
Sin da ragazzo gli piaceva disegnare navi, vascelli alberati, cutter, brigantini, e più c’erano alberi e vele e sartie da disegnare più godeva, specie a disegnare battaglie navali, le nuvolette che fanno i cannoni quando sparano.
– Mi piaceva disegnare il vento,- ha detto quasi commosso, come scoprisse qualcosa di sé che prima non sapeva.- Era un po’ come disegnare la libertà, la forza. La vita. Rendere visibile l’invisibile.
Luis Sepúlveda: “Un libro meraviglioso che raccomando di cuore”
A volte, per via dell’ordine delle mie letture, tardo ad arrivare a dei libri che desidererei aver letto prima. Il mio metodo è semplice e brutale: metto i libri nuovi uno sopra l’altro e prendo l’ultimo, quello più in basso.
Così, a causa del mio metodo, ho tardato vari mesi ad arrivare a L’ultimo viaggio del Capitano Salgari del mio amico scrittore italiano Ernesto Ferrero. Amo i libri che mi commuovono fino alle lacrime, perché ti tirano fuori lacrime di gioia.
Prima che imparassi a leggere, erano i miei nonni che mi leggevano ogni sera un racconto o un capitolo di qualche romanzo. Nella mia sperduta casa d’infanzia c’erano molti libri della casa editrice Porrúa, ed era la dolce voce di mia nonna Susana o la voce secca di nonno Gerardo che davano vita a dei personaggi che entrarono nella mia vita e non ne uscirono mai più, perché furono i feroci angeli custodi che vegliarono sulla mia infanzia.
I miei amici erano soliti pregare. Io e mio fratello ci affidavamo al Corsaro Nero, e soprattutto a Sandokan, la Tigre della Malesia. Sono cresciuto con i libri di Salgari, quando cominciai a leggere mi deliziarono centinaia di volte, la compagnia di un atlante mi aiutava ad arrivare nei mondi lontani di cui mi parlava Salgari. Non so quanti romanzi di Salgari avrò letto, però ricordo che ogni lettura era sempre nuova, differente, perché mi portava a leggere altri libri per comprendere di più e meglio. Senza Salgari, senza i suoi romanzi, non sarei arrivato ad amare l’“Atlante del mondo” nè l’enciclopedia “Piccolo Larousse” dove trovavo dei dati che rendevano più grandi ed indimenticabili i personaggi di Salgari.
Senza Salgari non sarei lo scrittore che sono.
Quanto crebbe (ai miei occhi) Yáñez de La Gomera, il nobile e generoso amico di Sandokan, quando seppi che era un “misericordia” e compresi le ragioni per le quali si prendeva tanta cura del suo inseparabile pugnale. È curioso, tutti i bambini vogliono essere l’eroe del romanzo, però io non ho mai desiderato essere Sandokan. Volevo essere come Yáñez, disposto a dare tutto, a rinunciare a tutto pur di prendersi cura della vita del suo amico.
Mi sono sempre chiesto come fosse in realtà Emilio Salgari, però ho sempre evitato di avvicinarmi alle biografie perché desideravo che egli fosse come io lo immaginavo. E da poche ore ho terminato di leggere L’ultimo viaggio del Capitano Salgari, una biografia romanzata, o meglio il romanzo di una biografia, del mio amico Ernesto Ferrero.
Potrei dilungarmi parlando e scrivendo di questo libro bellissimo, di questo romanzo intrinsecamente salgariano, ma preferisco dire che Emilio Salgari era, ed è, e sarà, così come lo mostra Ernesto Ferrero. Raccomando questo libro come amico, e lo faccio con tutto l’entusiasmo possibile e con tutta sincerità.
È ottimamente tradotto in spagnolo e pubblicato da Ático de Los Libros.
(17 marzo 2013)
Perché Salgari. Un’intervista
Disegnare il vento è stato il romanzo più votato dalla giuria dei letterati del Premio Campiello 2011. Anzitutto: perché un romanzo su Emilio Salgari e la sua vita drammatica?
Da quindici anni sono diventato un suo condomino, nel senso che sono andato ad abitare nel caseggiato che a Torino fu il suo ultimo domicilio, in riva al Po, ai piedi della collina di Superga, un chilometro fuori del dazio. Così mi sono chiesto chi fosse davvero questo strano vicino: adorato da generazioni di ragazzi, ma ignoto ai torinesi, come se vivesse su un altro pianeta. Presto ho scoperto la solitudine paradossale in cui viveva. Aveva creato interi mondi popolati di centinaia di personaggi, ma viveva isolato in una cerchia famigliare non facile: una moglie minacciata dalla follia, quattro figli piuttosto vivaci, una quantità di animali per casa, compresa una scimmia dispettosa. Mi sono accorto che il dramma che lui viveva suona per noi di una sorprendente attualità.
Eppure Salgari è uomo profondamente ottocentesco, nelle sue certezze, nella sua vocazione enciclopedica e classificatoria, nella sua passione per l’esotico…
Sì, ma vive una situazione che oggi possiamo capire meglio. Poiché ha un rapporto difficile con la realtà, ha dei complessi d’inferiorità per via della bassa statura, non si sente sufficientemente apprezzato, tanto meno dalla corporazione dei letterati, che lo snobbano come un fenomeno da baraccone, si costruisce un mondo che oggi diremmo virtuale, e vive in quello, fino a diventarne prigioniero. Quando il peso della realtà diventerà troppo forte, quando la fatica e il timore della malattia lo renderanno ancora più debole, l’unico modo per uscirne sarà il suicidio. Sin dagli esordi, è facile trovare nelle sue pagine dei forti impulsi autodistruttivi. Lo stesso Sandokan muore alla prima avventura, e lui è costretto a risuscitarlo perché così vogliono i lettori.
Lei sta dicendo che questo, che possiamo assegnare alla categoria del romanzo storico, visto che è ambientato nell’Italia di cento anni fa, l’Italia di De Amicis, delle prime automobili e del cinema nascente, in realtà racconta qualcosa che ci riguarda da vicino.
Proprio così. Il romanzo storico gioca sempre di sponda, parla di ieri per parlare dell’oggi. Raccontando la storia di Salgari ho voluto esplorare il rapporto tra vita e scrittura, tra la realtà che viviamo tutti i giorni e quella che ci costruiamo con la nostra immaginazione, tra quello che siamo e quello che vorremmo essere, tra ragione ed emozione. Ho voluto parlare del Salgari che è in noi. C’è una scrittura che ci aiuta a capire meglio noi stessi e la realtà, e quindi a viverla meglio, almeno a guardala in faccia; e c’è una scrittura che ci rinchiude dentro di noi,ci isola e opera una sorta di rimozione di una realtà sgradevole. Salgari ha usato la scrittura come droga per non affrontare i problemi da cui si sentiva oppresso. Ma si sa, le droghe rimando i conti, non li annullano.
Delle frustrazioni che si portava dietro fa parte anche il non essere riuscito a conseguire il brevetto di capitano di lungo corso.
Era un cattivo scolaro, ma un lettore onnivoro, ovviamente delle cose che lo appassionavano, i libri di viaggio, scoperta, avventura. Marinaio mancato, si è inventato una biografia di lupo di mare, e a quella è rimasto fedele tutta la vita, al punto che anche sua moglie, fino alla fine, era convinta che lui avesse navigato tutti i mari del mondo. Teneva al titolo di capitano, inventato, più che a quello di cavaliere, conferitogli dalla regina Margherita.
Come si può spiegare la carica di violenza, la sete di rivincita che anima i suoi oltre ottanta romanzi?
I suoi personaggi hanno tutti subito tradimenti e offese, si sentono vittime di ingiustizie contro cui si scagliano con furia implacabile, come fece lui stesso sfidando a duello un giornalista che aveva messo in dubbio il suo brevetto di capitano. C’è molto sangue, molto horror nei suoi romanzi. Arrivo a dire che in fondo lui è il nonno di Quentin Tarantino, il vero inventore del genere splatter, che ovviamente piaceva molto (e piace tuttora) ai ragazzi. Il resto lo faceva l’ambientazione esotica, molto accurata perché basata su centinaia di schede raccolte in biblioteca, ma trasformata in magia, suono, incantamento. In questo è stato un vero maestro. Tra i suoi lettori più appassionati ci sono Borges, il Che Guevara, Pavese, Parise, Pontiggia, Citati, Magris, Sepúlveda…
Eppure le storie letterarie lo ignorano.
E fanno male, perché a lui è riuscita l’impresa che ogni scrittore sogna: conquistarsi l’amore imperituro dei suoi lettori. Per almeno un secolo, è stato lo scrittore più amato dagli italiani. Certo, oggi sconta un po’ il linguaggio dei suoi dialoghi, che poi è quello dei libretti d’opera. Ma nulla può sostituire l’emozione di quelle indimenticabili letture giovanili.
Co-protagonista del suo romanzo è un personaggio d’invenzione, Angiolina, una ragazza che vorrebbe farsi insegnare da Salgari i segreti della scrittura, e gli è vicina negli ultimi, drammatici mesi.
Avevo bisogno di un personaggio femminile perché solo una donna poteva cercare di capire il dramma di quest’uomo, ed essergli vicino, quasi maternamente, ancorché molto giovane. In Angiolina c’è molto di me: dice le cose che avrei detto anch’io al cavaliere, se avessi avuto la ventura di frequentarlo. E mi fa piacere che molte lettrici la sentano sorella, e si commuovano con lei e per lei.
(Intervista di Francesco Mannoni, 2011)
I giudizi dei giurati del Premio Campiello 2011
Incantevole per struttura e montaggio.
Altissima qualità narrativa e storiografica. È più di una biografia.
Uno dei libri più straordinari letti negli ultimi tempi.
Un romanzo di estrema leggerezza ed eleganza.
Un incipit folgorante, forse il migliore dell’anno.
Hanno Detto di Disegnare il vento
Ve lo raccomando. È deliziosissimo. Mi ha colpito l’abilità sceneggiatoria che incastra le pagine documentarie e le parti narrative in maniera esemplare.
Un gran libro.
Un libro bellissimo. Non racconta solo di Salgari. Certo, la sua storia prende, commuove, strazia, ma è ancora un’altra cosa. È un libro sulla scrittura, dolente, appassionato, lucido: racconta che cos’è scrivere. Non saprei nemmeno dire che cosa è vero e che cosa è inventato. Tutto è perfettamente fuso, amalgamato e confuso: il verosimile perfetto.
Bravissimo come sempre a mescolare realtà e fantasia, ma questa volta vai forte perché ti incontri con uno scrittore che se in apparenza è il contrario di te, in realtà è un “intimo” del tuo immaginario.