Nelle sue vesti di editore, direttore del Salone del libro e scrittore, Ernesto Ferrero ha avuto il privilegio di conoscere molti grandi protagonisti della nostra cultura. Ha lavorato con loro, ne ha curato i libri, ha goduto della loro amicizia. E ce ne consegna ritratti rivelatori, restituendoli alla loro verità umana. Sono “maestri, padri e fratelli elettivi, amici, compagni di lavoro e di viaggio, presenze vive con cui dialogare”. Forti personalità che hanno ancora molto da dire e da insegnare.
Veniamo introdotti nel backstage della loro vita professionale e privata, alla scoperta di tratti rivelatori, magari segreti o poco noti, tra arte e vita, dramma e commedia, confessione e narrazione. Sono quasi altrettanti capitoli di un avvincente romanzo della conoscenza, sullo sfondo di una stagione di intense passioni intellettuali e civili, che in queste pagine rivivono nella loro vitalità creativa.
Hanno scritto:
Bellissimo.
Album di famiglia è bellissimo. Una lettura appassionante, che fa crescere un po’ di invidia per tutti quegli incontri con i grandi del ‘900.
Dario Franceschini
Un Canzoniere della cultura italiana
Bisognerebbe limitarsi a dire: leggetelo, e stop. Ci sono libri così, per i quali ogni commento rischia non solo di essere superfluo ma di guastarli. È il caso di Album di famiglia di Ernesto Ferrero (Einaudi). Il sottotitolo al plurale, “Maestri del Novecento ritratti dal vivo”, è inevitabile e corretto, perché ogni voce, da Calvino a Eco, può essere letta da sola con grande vantaggio del piacere e della conoscenza. Ma per apprezzare al meglio questo Album di famiglia vale la pena goderselo non pezzo per pezzo ma nel suo insieme, dall’inizio alla fine. Perché oltre a essere una rassegna di ritratti, è una sorta di canzoniere della cultura italiana, e appunto, come accade per le migliori raccolte poetiche a partire da Petrarca, conviene cogliere in parallelo l’aspetto lirico e l’aspetto romanzesco della storia d’amore in versi, che qui è una storia d’amore in prosa.
Album di famiglia è un canzoniere in vita e in morte di una “famiglia” allargata e irregolare fatta di uomini (tanti) e donne (troppo poche) che hanno creduto nel lavoro intellettuale come piacere individuale e anche come contributo per la costruzione di un Paese serio e robusto, civile e moderno. È la “famiglia” che Ferrero ha vissuto dall’interno, a partire dal 1963, cominciando come funzionario dell’ufficio stampa Einaudi, e proseguendo come direttore letterario ed editoriale in via Biancamano, poi ancora in Boringhieri, in Garzanti, in Mondadori, dal 1998 al 2016 di nuovo a Torino, la sua città, come sovrano del Salone del Libro. Una famiglia “ramificata, bizzarra, sorprendente, eccessiva, dispersa, perfino conflittuale, come tutte, ma straordinaria, coesa nelle stesse passioni, nello stesso sentire”. E se ogni suo componente ha una storia a sé, con il suo carattere, il suo protagonismo, i vizi e le virtù che gli sono propri, è però consapevole di agire dentro la storia di una comunità . Sostenuto da questa coscienza, Ferrero, con la sua passione e con il suo stile, trasforma i singoli “fragmenta” in una specie di canzoniere petrarchesco, fatto di rime interne, riprese a distanza, allitterazioni tematiche ed esistenziali. Restituendo il senso di quella coesione e di quella collettività che, a prescindere dalla qualità dei singoli attori già in sé grandiosi, oggi è davvero andata perduta.
“Sono diventati parenti stretti, presenze vive con cui dialogare” e delle quali “custodire il fuoco” di amore e di conoscenza. In dieci capitoli troviamo i “prediletti” Calvino e Primo Levi, i “capitribù” (gli editori-padroni), i “padri nobili” (Pavese apre la schiera), due “zii sapienti” (Cases e Pontiggia), le quattro “signore di ferro” (Ginzburg, Morante, Romano, Chichita Calvino), sei “maghi e funamboli” (Rodari, Munari, Fruttero & Lucentini, Regge e Ceronetti), i “cari agli dèi” (e a Ferrero, ovviamente), morti troppo presto (Fenoglio, Atzeni, Del Giudice), gli “inquieti” (Parise, Del Buono, Sciascia, Consolo, Celati), i “compagni di banco” all’Einaudi (Roberto Cerati, Paolo Fossati, Nico Orengo), i “mattatori” fuori misura in tutto (Guttuso, Pasolini, Garboli, Eco). Credo che Ferrero avrebbe potuto raddoppiare i nomi, vista l’esperienza già mirabilmente raccontata ne I migliori anni della nostra vita, che aveva per epicentro Giulio Einaudi e la sua corte. Ma il bello è che ogni vita narrata, come si diceva, non si esaurisce in sé ma rimanda all’altra: così in Einaudi trovi un po’ di Luciano Foà, in Foà trovi Calasso, in Calasso trovi l'”agente speciale” Erich Linder, in Linder trovi un po’ delle vite di Adriano Olivetti, di Bobi Bazlen, di Calvino, in Calvino trovi una lettera a Elsa Morante, in Elsa trovi Garboli, che la definiva una cannibale, in Garboli ritrovi Garzanti e Natalia Ginzburg, eccetera, all’infinito, tutto si teneva per affinità, vicinanza, ideali, anche per contrasto.
Quel che conta, in definitiva, è che non c’è scrittore, oggi, che sappia raccontare meglio di Ferrero i personaggi dal vivo: sono lui e Tullio Pericoli i grandi ritrattisti del nostro tempo, Ferrero con la penna, Pericoli con la matita. Significa saper osservare, saper ascoltare, e da quell’ascolto e da quell’osservazione saper cogliere l’essenziale che altri non vedono e renderlo visibile a tutti con la naturalezza assoluta di un gesto e di una parola. Uno dice: eh già, non l’avevo notato ma è proprio così. L’autentica sorpresa è che da quel dettaglio segreto si apre un ambiente fisico e mentale, il mondo dello scrittore, dell’editore, dell’intellettuale narrato, visto, incontrato, ammirato, la sua visione, il suo comportamento, il suo carattere, il suo rapporto con gli altri, la sua opera, la sua eredità. Perché́ in ogni personaggio c’è una grande opera compiuta da lasciare ai posteri: questo è ciò che accomuna tutti, la volontà di costruire, una volontà insieme creativa e artigianale che coincide con la propria pienezza e la propria felicità.
Detto ciò, quella felicità, grazie alla scrittura di Ferrero, diventa il nostro stesso godimento. “Compariva all’improvviso come un folletto spiritoso e spiritato. Gli ridevano anche gli occhiali…”. Chi avesse avuto mai il piacere assoluto di conoscere Vanni Scheiwiller, il più grande dei piccoli editori (dunque più grande dei grandi), lo rivede esattamente così, con gli occhiali che gli ridono quando annuncia una delle sue plaquette colorate, un Montale, un Rebora, un Gadda, un Flaiano, una Szymborska o una Merini (“quando nessuno se la filava”, aggiunge Ferrero, il che vale per tanti). “Guardava la letteratura con gli occhi di un intenditore d’arte”. Pur non avendola mai incontrata, Ferrero fotografa in un lampo Elvira Sellerio come la donna “che univa lo stile alto di una vera signora al fiero coraggio di Bradamante”. E poi descrive da par suo gli ambienti di via Siracusa a Palermo: “Una casa di famiglia. Con i vecchi mobili dall’aria protettiva, altrettanti lari e penati, le capienti librerie ottocentesche, i divanetti, le poltroncine, le étagères, lampade da tavolo poco invasive, la cera ben tirata sui pavimenti, cari ricordi alle pareti (…). Erano come fiori secchi che mandavano ancora un gentile profumo. Non oggetti di collezione, ma pezzi di cuore”. E poi c’è lui, il marito di Elvira, Enzo, “incarnazione dello Stile”, con un côté dada. Tocchi che regalano l’immortalità.
Livio Garzanti è tutto il contrario: “genio infelice per dovere famigliare”, il mancato filosofo che sapeva sposare l’alta letteratura, la grande poesia e i bestseller di Spillane e di Fleming, con le grandi opere, enciclopedie e dizionari. “Tutto cucinato in casa, con scrupolo maniacale”. Ma è un particolare a isolare nella sua unicità quel caratteraccio insensato e spesso distruttivo: “Unico tra gli editori, si sentiva in diretta competizione con i suoi autori. Che erano bravi, per carità, ma lui si sentiva più bravo di loro”. Persino Pavese, l’uomo dei malumori che Ferrero non può aver conosciuto nelle stanze einaudiane, un altro caratteraccio a cui non andava mai bene niente, viene descritto da vicino: “Lavora (vive) per una dozzina d’anni in casa editrice, ma è come ci fosse stato mezzo secolo, stiva il granaio come se dovesse nutrire le generazioni a venire”. Una missione? Forse. “Si era sentito vivo solo in ufficio. Poi non gli era più bastato nemmeno quello”. Fu Montale ad aprirgli gli occhi sulla letteratura con Le occasioni. Prima, l’editore Pavese si occupava tanto di storia ed economia.
Incrociato, invece, Montale, una sera verso la fine degli anni Sessanta nella redazione milanese dell’Einaudi, al terzo piano di via Brera 6, dove il vecchio poeta, a braccio della governante Gina, si era inerpicato non si sa per quale strano motivo. Ed eccolo come appare allo sguardo del giovane Ferrero, che timidamente gli si rivolse chiamandolo Maestro: “Lui strizzò le rughe, mosse appena le mani, come a scacciare una mosca importuna. Si esprimeva soprattutto con i gesti, le intonazioni della voce, un certo modo di sbattere le ciglia (…). Sotto il volto gommoso, le labbra un po’ gonfie, stava acquattato il sorriso sornione di un gatto vocato all’umorismo nella sua speciale declinazione ligure, che ha il genio della deformazione comica, il gusto caricaturale mai cattivo (…). Il riso agro che diventa economicità espressiva, ritegno, paura di dire troppo”. Il ritratto perfetto del poeta che ha vissuto al cinque per cento.
Al cento per cento deve aver vissuto Inge Feltrinelli: “Inge era un inno alla gioia (…). Con i tratti vagamente orientali, il sorriso largo, gli occhi che ridevano al mondo”. E quel colore, l’arancione, “declinato in tutte le tonalità possibili, come se avesse appena finito di raccogliere dai campi grandi mazzi di papaveri”. Ernesto la ricorda ai ricevimenti di Francoforte: “Non ne perdeva uno. Arrivava sorridente, captava l’aria, salutava gli amici, afferrava al volo una flûte di champagne, trovava le parole giuste per un saluto o un augurio, come sanno fare i presidenti e i regnanti, e ripartiva”. Di lei si potrebbe dire quel che Ferrero dice di Natalia Ginzburg, che era il suo opposto, con la sua aria severa e sempre in grigio: “Se dava amicizia, era per sempre”. Per spiegare a Einaudi le ragioni del loro matrimonio, suo marito Leone disse: “Scrive bei racconti”. Lo dicevamo, infatti: Album di famiglia è anche un canzoniere d’amore.
Paolo Di Stefano
“Corriere della sera”, 4 dicembre 2022
I ritratti di Ferrero per un romanzo della scrittura.
Quanto limitativa e insidiosa può essere l’autobiografia tanto è felicemente liberatoria la ritrattistica. Il genere letterario cui appartiene il ritratto è il saggio narrativo, in cui la descrizione dal vivo e dal vero di spigoli individui conosciuti nel corso della vita diventa romanzo senza volerlo: romanzo senza trama visibile, o con molte trame potenziali, o la cui trama è suggestivamente implicita.
Sto parlando del libro di Ernesto Ferrero Album di famiglia, il miglior libro, credo, di questo scrittore. Un libro che non conosce momento di opacità, sempre ispirato, illuminante e divertente. Una perfetta raccolta di esercizi di memoria, un saggio morale e civile non divano da categoria intellettuali, che non perde mai ion vivacità, acutezza, umorismo e quel fantastico gusto della varietà che suscitato dalla contemplazione di quanto gli esseri umani incontrati nell’arco di mezzo secolo fossero tanto singolari quanto meravigliosi. La felicità di un tale libro è nel suo essere sia un bilancio culturale del secondo Novecento in chiave di autobiografia indiretta, sia la gratificante constatazione di quanto fortunato è stata la sorte di chi, come Ferrero, ne ha incontrato molti protagonisti: “Gli autori di cui ho raccontato in questo libro hanno dedicato alla scrittura un impegno assoluto, totalizzante. Forse questo album è proprio un romanzo della scrittura”, il romanzo di chi scrive libri, di chi li leghe, li sceglie, li pubblica. Il lettore, per sua fortuna, qui perciò non ha a che fare con teorie e apologie della letteratura e dello scriverla: incontra invece coloro che l’autore ha visto vivere di cultura letteraria e nella produzione editoriale. (…)
Delle valutazioni e speciali affezioni di Frrero condivido solo i due terzi. Ma questo non importa: a volte sono di parere contrario, altre volte ho capito meglio e spesso ho saputo cose che non potevo sapere. Le mie esperienze in editoria sono minime rispetto a quelle di Ferrero. La mia attività è stata quella di recensore e polemista, cosa che non rende molto adatti al lavoro editoriale (…) Del resto, Ferrero parla di autori come persone e personaggi, non dei loro libri. Fra tutte le sezioni quella che contiene più ritatti è dedicata ai leader editoriali o “capotribù”, da Giulio Einaudi (“editoria come conoscenza degli uomini”) a Luciano Foa (“il signore degli Adelphi”), a Vanni Scheiwiller (“folletto sapiente”). (…) Album di famiglia non è neppure un libro da consigliare, si consiglia da sé. Basta leggere una sola pagina e dare un’occhiata all’indice per decidere subito di portarselo a casa.
Alfonso Berardinelli
“Il Foglio”, 24 dicembre 2022
Lampi di luce chiara
“È più difficile narrare l’amicizia che l’amore”, avverte Claudio Magris nelle parole con cui Ernesto Ferrero sceglie di aprire questo Album di famiglia. Lo scrittore torinese, protagonista di sessant’anni di storia editoriale italiana, prende in carico la sfida; e organizza le sue ‘fotografie scritte’ disponendole ‘per li rami’ di un vasto e frondoso albero genealogico elettivo (…) Lo spirito con cui ciascuno di loro è consegnato è antitetico a quello della celebrazione convenzionale. E dimostra che è possibile sin dalle prime pagine, quelle dedicate a due ingombranti e impegnativi “amici prediletti”: Calvino e Primo Levi. (…)
Ogni pagina riattiva come un bagliore, è un lampo di luce chiara – e calda- sui volti di questi umani non convenzionali; sul “tranquillo imperio” leggibile sul volto di Giulio Einaudi, su quello di Vanni Scheiwiller, “folletto spiritoso e spiritato”, i cui occhiali sembrano ridere con lui. Tragitti in treno, pranzi al ristorante, soste ai caffè, “interminabili notti” passate alla Fiera di Francoforte, estenuanti riunioni e correzioni di bozze: occasioni, si direbbe con Montale. E proprio Eugenio/Eusebio, che Ferrero sulle prime non sa bene che appellare, compare in un “alone di riservatezza e di imbarazzo”, strizzando le rughe, muovendo appena le mani. Sentite qua. “sotto il volto gommoso, le labbra un po’ gonfie, , stava acquattato il sorriso sornione di un gatto vocato all’umorismo nella sua speciale declinazione ligure: un riso agro e economico”. Chapeau.
L’album di famiglia offerto da Ferrero al nostro sguardo è privato e pubblico ad un tempo: perché certo, è il suo, il suo personale, però è anche il nostro – l’album di famiglia di una lunga stagione della cultura italiana, compattata da una profonda e inderogabile cultura antifascista (se ne colgono i segni nelle pagine appassionate sui “padri nobili”, da Bobbio a Foa a Revelli). È fatto delle intelligenze che hanno alimentato imprese editoriali, progetti culturali e letterari senza cui il nostro paesaggio novecentesco sarebbe irriconoscibile. Elsa Morante “avvolta in foulard e gonne multicolori” che sembra una cartomante. Lallo Romano “forte, battagliera, indomabile”. I maestri di bricolage Fruttero & Lucentini. Pasolini con il suo corpo “prosciugato dall’agonismo, dalla febbre di vita che lo consumava, un fascio di nervi e tendini”. Umberto Eco mostro di erudizione senza darlo a vedere, “empatico, giocherellone, curioso di tutto”.
Nel congedo -bellissimo- Ferrero insiste sul peso che la scrittura, “impegno assoluto, totalizzante” ha avuto nelle vite di questi amici. E manifesta la gratitudine, la tenerezza, l’orgoglio di aver fatto parte di questa famiglia allargata: “Insieme, abbiamo condiviso l’illusione, mai dichiarata, eppure reale, di cambiare un po’ in meglio il mondo con i buoni libri. Forse non ci siamo riusciti, ma ci siamo divertiti moltissimo”.
Paolo Di Paolo
“La Stampa”, 25 ottobre 2022
Ritratti di un pittore fiammingo, anzi no, di un illuminista
Un libro molto bello, che offre una galleria di ritratti di personaggi grandissimi e grandi, i medi e i piccoli sono esclusi. Leggendo, mi veniva spontaneo il paragone con certi maestri olandesi o fiamminghi, per la precisione del tratto, per la nettezza. Poi ho capito che non è questo il paragone. Assomigliano di più ai ritratti dei Rinascimento italiano, in cui non c’è chiaroscuro, i personaggi sono illuminati da una luce che gli gira tutta intorno. C’è la stessa nettezza, lo stesso nitore. Ernesto è un maestro in questo. Molti personaggi che ho avuto la fortuna di conoscere vengono fuori con caratteristiche che non avevo mai colto con tanta esattezza. È la straordinaria caratteristica del suo modo di descriverli. Li ho scoperti in una serie di dati di fatto che non conoscevo, per esempio non sapevo che la madre di Natalia Ginzburg fosse sorella di Drusilla Tanzi, la Mosca di Montale.
Il gusto di Ernesto è un settecentesco, ha questa precisione. Assomiglia un po’ al vecchio principe Bolkonskij di Guerra e pace che torniva tabacchiere mentre insegnava matematica alla figlia. Ha un’attitudine che si ritrova nel pensiero settecentesco per la precisione, per il non sbavato. Ritratti perfettamente a fuoco, come fotografati con una Laica interiore. Questa impressione è confermata dalla sostanza del libro, che nella sua ispirazione profonda è illuminista, come si vede dalla struttura del libro, in cui i ritratti sono disposti secondo una precisa gerarchia. Non è casuale che i due eroi principali sono Calvino e Primo Levi, due tipicissime figure illuministe, con tutta l’ansia che connota il povero illuminista. L’illuminista non è felice per definizione, è perennemente insoddisfatto del disordine del mondo, questo insieme caotico e disordinato, dove si agitano materie sentimentali che all’illuminista sono estranee.
Voi sapete benissimo che il mondo non è altro che una pallida imitazione dei libri. Il libro va visto in questa luce illuminista, che poi risulta da una dichiarazione esplicita dell’autore, che magari senza rendersene conto di farla, a pag. 8 parla della letteratura come viaggio di conoscenza. Questo è il suo emblema, la sua idea di letteratura. Non è la mia. Io sono convinto che la letteratura sia il mondo vero. Sono platonico, la verità sta lì, quel vediamo tutto i giorni sono copie di copie, immagini di immagini sfocate e malandate, come diceva Platone e ogni giorno mi confermo in questa idea. Gli eroi di Ernesto, come Calvino e Levi, hanno impersonato precisamente questo atteggiamento conoscitivo, si sono messi a caccia di conoscere attraverso lo strumento della letteratura, ed è quello che ha fatto anche lui, eleggendoli a sue stelle polari. C’è riuscito molto bene
Gian Arturo Ferrari
Circolo dei lettori, Torino, 17 ottobre 2022
Ritrattista e critico alla Lytton Strachey
I ritratti non sono un genere italiano, ma sostanzialmente inglese se non francese, sempre sul crinale tra un giudizio sull’opera e una divagazione sulla persona. Questa divagazione per Sainte-Beuve era fondamentale per capire l’opera. Il libro mi ha molto ricordato la letteratura alla Lytton Strachey. Ci si muove in questi ritratti con una naturalezza e al tempo stesso con una pensosità che è tipica del ritrattista e anche del grande critico. Spesso contengono una monografia critica. Sempre azzeccata, sempre originale, vista con questo occhiale speciale. C’è qualcosa di comune tra queste stelle esplose? Si respira la stessa aria, l’idea di ritrovarsi nella letteratura. Detto oggi è quasi uno scandalo, ieri era un’ovvietà. Roland Barthes diceva che la letteratura è un veicolo, un tram che va, non sono io che la faccio, sono io che salgo su questo tram. Quindi la letteratura è una brigata di persone che parlano la stessa lingua. Tutti si parlano, la brigata è in cammino, uno parla, gli altri tacciono, poi riprendono il discorso quando l’altro ha smesso.
Un fenomeno di comunicazione, tipico di una famiglia. Non è il sentimento della famiglia, che può anche essere un incubo, una piccolezza. È un’aria che si respira e io l’ho respirata in questo bellissimo libro. Una parola che non bisogna mai usare, diceva Pontiggia, ma quando un libro è bellissimo, è bellissimo, poi cerchiamo di articolare. È un circolo in cui troviamo generosità, comunicazione, affetto. Oggi si parla troppo di emozioni. La poesia è il contrario dell’abbandono alle emozioni, è il venirne a capo. Bisogna cercare di capire che cosa è successo, andare oltre, come va Ernesto in questi ritratti diversamente congegnati e di lunghezza diversa.
Il punto di partenza è la lettura, non la scrittura. Questi personaggi leggono, leggono, leggono, si direbbe che non si sa quando trovano il tempo di scrivere. Questo bisogno di libri, quasi di respiro, di aria, di ordine, crea anche un sentimento di appartenenza. Calvino, Pasolini, Montale, per citarne solo alcuni, leggevano continuamente. Ne I contemporanei del futuro Pontiggia si chiede cosa significa leggere, cioè cogliere la trasmissibilità possibile da un mondo all’altro, da quello dei classici al nostro. Una pietra sopra è uno dei libri meno frequentati di Calvino, ma raccoglie grandissimi saggi che ci dicono qual era il suo spettro di lettura, da Manzoni a Galileo. Interi mondi che si aprono uno sull’altro e sostengono il suo procedere nel nuovo, e questo Ernesto lo spiega benissimo. Montale non è solo l’autore di Ossi di seppia o di Satura, è il critico della poesia, ha scritto migliaia di pagine critiche. Ma può esistere una letteratura che non sia anche critica della letteratura? Sin dai tempi dell’Ariosto e del Tasso la letteratura è pensare la letteratura. Questo libro è una ricognizione di quel problema, sotto forma di ritratti, di passeggiate, chiacchierate, pensieri in apparente disordine.
Tutti gli autori ritrattati avevano fiducia nella letteratura come qualcosa che rappresenta un livello della realtà, una chiave per accedere alla realtà, una passione della verità. Tra le tante, mi ha colpito una pagina dedicata a Natalia Ginzburg, che voleva la verità a tutti i costi, detestava la menzogna. La letteratura è anche questo. La timida, inadeguata, impacciata, ignorante, pigra Natalia, come si rappresentava lei stessa, era quella che cercava la passione del vero. Tutti i personaggi di questo libro amano la letteratura, anche quando la detestano, come Cesare Garboli, che era più interessato alle patologie che provocano la letteratura. Naturalmente così facendo produceva letteratura.
È anche un libro molto divertente, con molti aneddoti, pieno di cose che non sapevamo, magari piccole ma memorabili. Montale era uno snob sfrenato che detestava parlare di cose serie, preferiva parlare di scemenze e pettegolezzi. Un giorno in un ristorante a chi insisteva a chiedergli della sua poetica ha detto: “Assaggi piuttosto queste cipolline”. Voleva dire che per lui la poesia era una cosa talmente seria, talmente fondativa, che è meglio non parlarne. Bisogna farla, ma in altro momento, in segreto.
Resta la malinconia che è anche il motore del libro, e io non ho niente contro la nostalgia, che resta tipica del libro che è anche un’autobiografia anomala, perchè parte dalle vite degli altri. “L’io è detestabile”, diceva Pascal. Ernesto ripete questa formula con immensa felicità.
Giorgio Ficara
Circolo dei lettori, Torino, 17 ottobre 2022
Ritratti parlanti. Un’alchimia di narrazione, saggistica e autobiografia
Noi siamo anche – forse soprattutto – gli incontri che abbiamo fatto. Ernesto Ferrero di persone speciali ne ha incontrate tante. Ultimamente le ha rivisitate nel teatro della memoria ed è stato come sfogliare l’album di una famiglia allargata. Famiglia straordinaria, perché Ferrero ha occupato luoghi di osservazione privilegiati. (…)
Dirigere case editrici significa scrivere tramite i libri degli altri: esperienza esaltante ma pur sempre di creatività indiretta. Come autore in proprio, Ernesto Ferrero ha concepito – in itinere – decine di saggi e romanzi, ha vinto un premio Strega e un Selezione del Campiello, ha tradotto Flaubert, Céline e Perec. Con il suo passo felpato, il sorriso gentile e quell’empatia che diventa amicizia, ha plasmato mezzo secolo di cultura italiana. Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo è una alchimia di narrazione, saggistica e autobiografia. Cioè un genere letterario a sé, che Ferrero fondò nel 2005 scrivendo I migliori anni della nostra vita e che solo lui e pochi altri per le loro fortunate esperienze possono praticare. (…) Ogni ritratto è parlante: aneddoti, battute, tic e colpi di genio per abbozzare le biografie; giudizi garbati ma senza sconti per i profili critici; ricordi precisi da scrupoloso cronista per la parte autobiografica.
Piero Bianucci
“La Stampa”, 28 ottobre 2022
Un Album godibile e malinconico
La costellazione Einaudi è una parte fondamentale del cielo culturale italiano. Ma questo si sa. Lo abbiamo appreso e ripetuto tante volte. La nascita della casa editrice durante gli anni del fascismo, le prime figure mitologiche, a cominciare da Leone Ginzburg e Cesare Pavese, i successivi nomi straordinari (come Calvino e Bobbio) che l’hanno irrobustita. E poi le crisi, gli scomparsi, le rinascite. E in mezzo il lungo racconto che Ernesto Ferrero ha tessuto in un godibile e malinconico Album di Famiglia.
Antonio Gnoli
“Repubblica/Robinson”, 29 ottobre 2022
Un libro poetico, un doveroso omaggio a chi ha fatto il Novecento
Ernesto Ferrero ha scritto un libro poetico. “Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo”, edito naturalmente da Einaudi, è un doveroso tributo a chi il Novecento l’ha fatto davvero, è un sontuoso omaggio alla scrittura, alla scrittura che ci inquieta, che ci libera, che ci tiene in vita. Spiega l’autore: “La mia vera avventura è stata ed è la scrittura, il colore delle parole, le infinite potenzialità che contengono. Mi addolora che sia oggi così poco considerata, che non sia ritenuta l’elemento decisivo per valutare la qualità di un’opera. Il ‘come’ si racconta resta ai miei occhi infinitamente più importante di quello che si racconta. Valga per tutti il Tristram Shandy di Lawrence Sterne. Gli autori di cui ho raccontato in questo libro hanno dedicato alla scrittura un impegno assoluto, totalizzante. Forse questo album è proprio un romanzo della scrittura, di tante scritture, del loro farsi, e incrociarsi e nutrirsi reciprocamente”.
Tolgo il forse. Se Bobi Bazlen “aveva inoculato nel giovane Calasso l’impulso a cercare libri che fossero altrettante sonde lanciate nelle plaghe del mistero”, qualcosa dev’essere rimasto addosso anche a Ferrero. Questo Album è un favoloso romanzo della scrittura, che passa per Calvino e Levi, Einaudi e Calasso, Pavese e Montale, Cases e Pontiggia, Ginzburg e Morante, Rodari e Ceronetti, Fenoglio e Del Giudice, Sciascia e Consolo, Cerati e Orengo, Pasolini ed Eco e tanti altri. Non posso citarli tutti, ma se Ferrero, chiedendosi se vuole più bene a papà o alla mamma, risponde che i suoi prediletti sono Calvino e Levi, io mi tengo stretti i ritratti di Pavese e Sciascia, di Fruttero&Lucentini e Bobbio, di Fenoglio e Consolo. In realtà, perché scegliere? Percheé prediligere? Perché confrontare? E che dire di Daniele Del Giudice, il Conrad volante, lo scrittore per eccellenza di una scrittura superba e inimitabile?
L’Album non è il museo di Reims, non deve esserlo, ma è un ambiente pieno di stanze luminose e di magnifici quadri, dove si muovono i prediletti e i capotribù, i padri nobili e gli zii sapienti, le signore di ferro e i maghi e funamboli, i cari agli dèi e gli inquieti, i compagni di banco e i mattatori.
Il come si racconta rivaleggia in ogni riga con quello che si racconta. Non sarebbe stato lo stesso libro, se l’avesse scritto un altro: “Ho provato a raggruppare i ritratti secondo affinità più o meno evidenti, o soltanto immaginarie. È una sistemazione di comodo, perché nelle famiglie alla fine tutto si tiene, il passato e il presente, il lontano e il vicino, le ovvietà e le stranezze. Ogni storia è fatta di tante storie contigue, l’effetto finale è quello di una rete, dove anche la solitudine, habitat naturale dello scrittore, diventa nodo, e la singola voce fa parte di un coro. Il romanzo famigliare non ha un finale. È il romanzo che ogni generazione è chiamata a riscrivere. Nella grande casa di famiglia anche la tua piccola esistenza può acquistare un senso”. Come i silenzi siciliani di Sciascia, quando passava per via Biancamano, come il fervore tragico di Pavese, che in via Biancamano lasciava il segno. Grazie, Ferrero. Ho letto un libro poetico. Aveva ragione Consolo: “Solamente i poeti, ancora, posseggono l’oscuro segreto delle parole per dire, con la più alta dignità e più alta bellezza, della grande avventura dell’esistere, della vita; dei suoi dolori, delle malattie, della morte; dire delle sue consolazioni; dell’amore, dell’arte, di un fiore (sia pure una ginestra), del sorgere del sole, del tramonto della luna, della grazia di una donna”. Della grazia di un libro.
Davide D’Alessandro
“Huffington Post”, 8 novembre 2022
Un nobile capitolo della storia italiana
(…) Basterà scorrere l’indice, con particolare attenzione ai titoli delle diverse sezioni, per rendersi conto che Ferrero è l’ultimo depositario di una grande eredità relativa a un’epoca che, forse, si è definitivamente chiusa con la morte di Umberto Eco (…) Questi ritratti dal vivo si costituiscono naturalmente come microbiografie e monografie critiche, esercizi d’ammirazione ed elegie del commiato; Ma sempre rameggiando da un coscienza letteraria consapevole del suo scopo fondamentale: “La mia vera avventura è stata ed è la scrittura, il colore delle parole, le infinite potenzialità che contengono (…) Ferrero ci confessa di provare grande gratitudine, tenerezza e orgoglio per aver fatto parte di questa straordinaria “famiglia allargata”. La stessa gratitudine che proviamo ora per lui per averci ricordato che la nostra storia di italiani ha avuto anche questi nobili capitoli
Massimo Onofri
“Avvenire”, 17 novembre 2022
Un volume godibile come pochi
«Gli scrittori sono spesso degli esseri insicuri, nevrotici, egocentrici e autoreferenziali, vanitosi, esibizionisti, vittimisti, invidiosi delle fortune dei colleghi, queruli, eterni adolescenti che cercano una rivincita sulle proprie difficoltà esistenziali, e senza nemmeno saperlo praticano la scrittura come autoanalisi e come terapia. Primo era l’esatto contrario: riservato, paziente, di una modestia che sconfinava nell’autolesionismo, se non nel masochismo. Mai uno scatto, una parola fuori posto, un malumore, un’ombra di nervosismo. Quanto tempo c’è voluto per accorgerci che è uno dei massimi scrittori del Novecento».
Così Ernesto Ferrero scrive di Primo Levi, nel medaglione che, insieme a quello dedicato a Calvino, apre Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo (Einaudi). Il dittico forma la sezione iniziale, intitolata I prediletti: ne seguono altre nove, dai suggestivi titoli (I capotribù, I padri nobili, Gli zii sapienti, Le signore di ferro, Maghi e funamboli, Cari agli dèi, Gli inquieti, Compagni di banco, Mattatori). Scrittori e scrittrici, in massima parte, ma anche uomini e donne di editoria, nonché una figura inclassificabile, «un’opera d’arte vivente» (come la definì Francesca Serra), cioè Chichita Calvino. Una galleria di personaggi che forma un volume godibile come pochi, per la vivacità delle descrizioni, la chiarezza dei ricordi, la sobria eleganza della scrittura; e un repertorio di incontri e di occasioni che è anche, a suo modo, una raccolta di tasselli autobiografici, a complemento e integrazione di I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli 2005).
Mario Barenghi
“Doppiozero”, 1 dicembre 2022
Una stagione irripetibile
Scriveva Elio Vittorini nel suo Diario in pubblico che ci sono libri di fronte ai quali si rimane sulla soglia e libri in cui si viene invitati a entrare, a mettersi comodi, a sentirsi come a casa. In questo Album di famiglia di Ernesto Ferrero (Einaudi), che reca un sottotitolo esemplificativo, Maestri del Novecento ritratti dal vivo, accade di provare l’ebbrezza descritta da Vittorini, cioè di sentirsi tra le mura di una casa o, per meglio dire, in quella dimensione di ritorno alle origini, la stessa che capitava di avvertire quando, durante gli anni di università vissuti da fuorisede, si rientrava nell’orizzonte domestico per le feste comandate e ci si riappropriava dell’aria da cui si era partiti. Leggere Album di famiglia è come tornare a casa, non per ragioni geografiche, ma perché l’orizzonte di riferimento è quello di una certa comunità novecentesca, composta di scrittori ed editori, amici e colleghi, con cui stabilire, a diversi gradi, una certa parentela. È questa la materia di cui traboccano le pagine: una nomenclatura da capogiro (da Calvino a Pavese, da Montale a Bobbio, da Foa a Revelli, da Rodari a Regge, da Fenoglio a Del Giudice, da Sciascia a Consolo, da Guttuso a Eco) che nasce sotto l’insegna del precetto di Gustav Mahler («la tradizione non è l’adorazione delle ceneri, ma la custodia del fuoco») e finisce per diventare una pensosa ricapitolazione di un clima culturale a cui ci si sente di appartenere legati mani e piedi, per un vincolo d’elezione.
Una sensazione del genere è già sufficiente per autorizzare l’accostamento con la dimensione casalinga: ci si sposta sulle pagine come da una stanza all’altra di un grande e raffinato appartamento e non di rado si viene catturati dalla tentazione di non uscirne più. Sarà per quanto vi viene raccontato, per gli scorci umani che ne compongono la trama, per l’ammaliante senso di ordine che accompagna la scansione dei capitoli, suddivisi secondo aree di appartenenze parentali (I capotribù, I padri nobili, Gli zii sapienti) o per ruoli (I prediletti, I maghi e funamboli, I cari agli dèi, Gli inquieti, I compagni di banco, I mattatori).
Sarà per il fulgore che accompagna uomini e libri, per i sentimenti di condivisione e di stima, per le riflessioni sul lavoro editoriale e sul mai del tutto chiarito rapporto tra letteratura e vita; sarà per tutta questa materia densissima, ma qui siamo davvero al cospetto di quel Novecento che sopravvive nell’immaginario di chiunque abbia a cuore l’ossessione per le storie, quell’amore intramontabile che ha accompagnato i grandi lettori fino al termine del vecchio secolo e che poi chi ha potuto si è portato con sé nel nuovo millennio, come chiedeva il Calvino delle Lezioni americane, in forma di eredità testimoniale e non di zavorra. Intendiamoci bene: Calvino faceva appello a precise categorie teoretiche là dove, invece, Ferrero chiama a raccolta gli individui per nome e cognome, né elenca i dati esemplari senza cadere nel vezzo del ritratto agiografico, aiuta a ricostruire i tanti perché di una stagione forse irripetibile, osservata dal di dentro e senza i fronzoli della retorica.
Stiamo parlando del Novecento einaudiano, appunto, quello che ciascuno di noi ha sognato di attraversare da attori, da comparse, da sparring partner, perché dalla sigla dello Struzzo – da quel magnifico appartamento composto di collane, di iniziative culturale, di teoresi sulla necessità di capire il proprio tempo, che è stata la storica sede torinese di via Biancamano – trapela un’umanità che assume una fisionomia fin troppo familiare per farci sentire estranei. Chi non ha varcato almeno una volta, nei sogni, la soglia dov’era la scrivania di Giulio Einaudi? E, sempre attingendo ai desideri, non ha voluto sbirciare almeno per un attimo sulla sua scrivania? Il libro di Ferrero vive di queste accensioni, disegna ritratti e non caricature, schizza profili di persone mitigati da un sentimento di misura interiore in cui progettare cultura diventa intelligenza morale e viene a rappresentarsi dinanzi agli occhi mediante i titoli dei libri, mediante le copertine disegnate da Albe Steiner o da Bruno Munari, mediante le riunioni del mercoledì a cui nessuno, credo, si sia mai salvato dalla tentazione di essere presente.
È questo il Novecento che si passa in rassegna leggendo Album di famiglia ed Ernesto Ferrero ce lo racconta con la metrica di un’epopea pronunciata a bassa voce, «per vedere come sono certe vite al naturale» ammetterà nel congedo finale, eppure sontuosa per l’altezza dei profili, a cominciare da chi sta al vertice di tutto, Giulio Einaudi, padre-padrone di un’editoria «come conoscenza degli uomini» (così titola il capitolo a lui dedicato), uomo dal carattere controverso, ostinato persecutore della banalità e sempre a caccia di idee nuove, protagonista più in controluce che in primo piano di quel particolare modo di essere “chierici” che Ferrero aveva attraversato, anni fa, in I migliori anni della nostra vita (2005) e che ora, con questo viaggio nelle fotografie di un’epoca in bianco e nero, affida alla consacrazione della Storia. D’altra parte, per sentirsi veramente in famiglia, bisogna vantare una speciale appartenenza alle liturgie private di una casa-mondo com’è stata la Einaudi, ma per farlo bisogna avere avuto il privilegio ineguagliabile di essere lì, presente in corridoio, quando arrivava in via Biancamano Mario Rigoni Stern, lo «zio montanaro dalla barba ben curata, che profumava di neve e di aria di bosco», oppure di accompagnare un ancora spaesato Primo Levi all’edizione d’esordio del Premio Campiello, che poi il chimico-scrittore avrebbe vinto con l’odissea post-lager che è La tregua(1963). Sono almeno sei decenni, vale a dire dai primi anni Sessanta, che Ferrero ha le carte in regola per pronunciare la frase che vorremmo dire tutti: io c’ero.
Ciò spiega le ragioni di certe folgoranti definizioni, che disegnano il cartamodello di un abito cucito sulle spalle di chi lo indosserà: Livio Garzanti era «intelligentissimo, timido, aggressivo, geniale, dispotico, imprevedibile, coltissimo, saturnino», Massimo Mila «poteva dire cose durissime con il finto candore di chi recitava la parte del socio di una bocciofila lungo il fiume», Peppo Pontiggia pareva «uno di quei meravigliosi dottori di famiglia di una volta», Bruno Munari era il «maestro del riuso», Franco Lucentini era un «candido innocente» e il sodale Carlo Fruttero un «cinico qualunquista», Goffredo Parise «aveva la passione dell’entomologo e l’occhio dell’impressionista», Gianni Celati «viveva sempre con una valigia in mano, nel mondo atemporale della fabula», Pier Paolo Pasolini era «un marxista segnato dall’educazione cattolica, un mistico sconfitto ogni giorno dalla propria sensualità».
L’elenco potrebbe continuare. È fin troppo breve il passo che separa le persone dai personaggi (due termini da non sovrapporre) e, se ormai è diventata totalizzante la cattiva abitudine di volgere a sagoma di personaggio chi invece dovrebbe essere ritenuto semplicemente ed esemplarmente una persona, fa riflettere la maniera in cui si pone chi racconta, cioè Ferrero: mai sul piedistallo del protagonismo e sempre con il piglio dell’umile osservatore che compie uno sforzo nel soppesare bene le parole, nel mettersi al servizio dell’altro e, come se non bastasse, senza mai pronunciare la parola “io”.
Può essere che Album di famiglia sia un esercizio di moralità in tempi in cui con troppa facilità si innalzano monumenti e si intonano inni gloriosi a chi ha ancora tanta strada da percorrere prima di arrivare al traguardo. E può essere pure che comporre quest’opera sia stato un modo attraverso cui, tracciando il riassunto di una parentela, elencando l’organigramma di una comunità che ha creduto in un progetto di vita prima ancora che culturale, Ferrero abbia inteso consegnarci una sorta di «romanzo della scrittura, di tante scritture, del loro farsi, e incrociarsi e nutrirsi reciprocamente». Così facendo, ci ha offerto la “sua” idea di scrittura senza l’arroganza precettistica di chi elargisce segreti nell’usare i ferri del mestiere, ma con l’eleganza di chi cerca conferma negli altri, quasi il segreto di una pedagogia costruttiva fosse nel mettersi da parte, nel recitare il ruolo dello spettatore non passivo, testimone di un tempo gravido di passioni.
Ne viene fuori un umile ed epico manifesto di estetica autobiografica o di autonarratologia, nel segno di un’idea di cultura che rimane inalterata per l’intero sessantennio, dove si fa continuo il rimando (mai nostalgico, semmai malinconico) per quel che oggi consideriamo una stagione di irripetibile fervore intellettuale e dove, a lungo andare, si professa la stessa regola che apparteneva ai chierici: la passione, lo studio, lo sforzo di inseguire il meglio possibile, che poteva essere tanto un magistero espresso in mille pagine quanto la levigata docilità di una costruzione sintattica.
Se è vero che ogni scrittura non è che una maniera per disegnare una cattedrale o un qualsiasi altro edificio, le stanze della letteratura dove hanno vissuto i protagonisti di questo libro esprimono non soltanto la meraviglia dei luoghi perfetti, ma la sorpresa che è esistito un secolo in cui non è stato vano cibarsi di narrazioni e nemmeno accarezzare l’orgoglio di un mestiere che conserva pur sempre caratteri artigianali e mercantili, così come chiedeva quel genio di Walter Benjamin prima di morire. «Con questi famigliari elettivi parlo tutti i giorni» – confessa Ferrero in coda al suo Album di famiglia–. «Sono contento che non possano vedere questo interminabile tramonto d’Occidente, una crisi di civiltà fatta d’ignoranza, appiattimento verso il basso, arroganza, conformismo di massa, frustrazione che diventa violenza verbale e fisica, uso sempre più sciatto e truffaldino del linguaggio».
Giuseppe Lupo
“Doppiozero”, 7 dicembre 2022
Seduzione narrativa.
Ernesto Ferrero, oltre che scrittore in proprio e uno dei maggiori tra i contemporanei (nel 2000 ha vinto anche il Premio Strega con il romanzo N, che ha per protagonista Napoleone all’isola d’Elba, ma molti altri sarebbero i titoli da ricordare e raccomandare) e titolare di un sito (http://www.ernestoferrero.com) tra i più originali e sempre ricco di stimoli, è uno dei grandi dell’editoria italiana. Forse, se non il più grande, certamente il più completo e generoso in un mondo di narcisi in cui le amicizie spesso sono più di facciata che sincere. È stato direttore editoriale dell’Einaudi, di Garzanti, di Boringhieri e Mondadori, dal 1998 al 2016 ha diretto il Salone del Libro di Torino. Ora da Einaudi è uscito un suo nuovo libro, una specie di sequel del fortunato I migliori anni della nostra vita, Feltrinelli. Si intitola Album di famiglia, e si dichiara subito nel sottotitolo, Maestri del Novecento ritratti dal vivo: 45 profili di scrittori, agenti letterari, editori e critici ritratti da vicino, con lucido affetto e acuta penetrazione. Un libro che si legge come un romanzo, “un canzoniere della cultura italiana” (Paolo Di Stefano) che chiunque sia ancora appassionato di libri cartacei dovrebbe leggere.
E sarebbe imprescindibile per tutti gli allievi di scuole di scrittura, per chiunque aspirasse o si accingesse a lavorare nell’ambito dell’industria culturale perchè si possa trasmettere anche alle nuove generazioni non solo l’amore per i libri ma anche la conoscenza “artigianale” di tutte le attività che contribuiscono a far nascere un libro e la rete di rapporti e relazioni, bizzarrie e narcisismi, ansie e ripicche che si agitano dietro le quinte del palcoscenico editoriale. E la quantità di lavoro, anche materiale, la pazienza, la diplomazia, a volte anche l’astuzia necessarie nel trattare quelle figure bizzarre che sono spesso gli scrittori (e, aggiungo, anche gli editori, almeno quelli d’antan.)
Oltre ai “prediletti” Italo Calvino e Primo Levi sono qui raccontati, secondo gustosi e acuti raggruppamenti, gli editori (“I capotribù”) e gli scrittori, ciascuno con una qualifica azzeccatissima, come se fossero personaggi di un grande spettacolo o figurine di una giostra: “I padri nobili”, “Gli zii sapienti”, “Le signore di ferro”, “Cari agli dei” ecc. Sembra un gioco, ma in realtà è già, fin dall’indice, un’arguta e affettuosa scansione critica di correnti e scuole, di affinità e distanze.
Ma la ragionata rassegna del mondo letterario italiano è solo un aspetto, e forse nemmeno il più importante, del libro, che invece affascina soprattutto per la seduzione narrativa. Ferrero, si sa, è uno scrittore autentico e qui, in un tête à tête autobiografico ma molto piemontese, cioè alieno da ogni forma di narcisismo e fedele all’ esageroma nén, cattura anche il lettore profano, conducendolo con fascino e garbo a entrare in confidenza con personaggi che vivono sulla pagina con profondità e immediatezza.
Gianandrea Piccioli
“Volerelaluna”, 21.12.2022