Nell’estate 1924 –l’anno del delitto Matteotti- le cronache danno ampio risalto ad un personaggio straordinario: Chief White Elk, il capo pellerossa sbarcato in Europa per difendere davanti alla Società delle Nazioni i diritti degli Irochesi. Fisico atletico, battuta pronta, Cervo Bianco ha lavorato nel cinema con Rodolfo Valentino, è mondano, galante, si intende di tutto, ed esprime la sua gioia di vivere con sonore risate. Le sue più accese sostenitrici sono due nobildonne austriache d’antico lignaggio, madre e figlia, che lo ospitano in una villa nei pressi di Trieste e se ne contendono i favori in un gioco che si fa via via più sottile e crudele. Ma è l’Italia intera ad infiammarsi rapidamente per lui.
Il capo indiano non fa soltanto sognare i tanti lettori dei libri di Emilio Salgari, abbacinati dallo sfarzo dell’abbigliamento esotico. La sua generosità si rivela presto inesauribile e spettacolare: benefica centinaia di poveri, di orfani, di reduci; dispensa mance favolose, si proclama ammiratore e sostenitore del Fascismo attraverso cospicue donazioni. Ad ogni tappa di una tournée trionfale (da Venezia a Fiume, da Bari a Napoli, dalla Riviera ligure a Firenze) lo attendono folle in delirio, in cui si ritrovano fianco a fianco nobili e popolani, “maschiette” e generali, alti prelati e camicie nere, giornalisti e autorità. Mussolini lo riceve a Palazzo Chigi. Ma chi è veramente quest’uomo? Un eroe, un filantropo, un mitomane, un seduttore, un imbroglione? Severino, il giovane segretario del “principe” indiano, e testimone privilegiato di quei mesi turbinosi, prova a darsi una risposta sulla scorta di lettere, diari, ritagli di giornale e dei suoi stessi taccuini.
Ernesto Ferrero trasforma un mirabolante fatto di cronaca in un romanzo incalzante, gremito di personaggi memorabili (tra i quali compaiono a sorpresa anche il poeta milanese Delio Tessa e il musicologo Massimo Mila). Tra esaltazioni collettive e intrecci amorosi, viaggi frenetici e balli sfarzosi, castelli e idrovolanti, la trama di questa vicenda pirandelliana finisce per far emergere il volto segreto di una intera società. La “resistibile ascesa” di Cervo Bianco diventa lo specchio di un’epoca, della sua fragilità, della sua fame di maschere, di finzioni, di sogni.
Note sulla nascita del libro
Cervo Bianco tra realtà e finzione. Una storia, due romanzi
Molte sono le tracce documentarie lasciate da Edgar Laplante-Cervo Bianco durante la sua avventura italiana, iniziata nel giugno 1924. Il processo di Torino, in particolare, è stato seguito da “La Stampa” con il rilievo che quel caso clamoroso imponeva. Dopo la condanna del 1926, la sua casacca in pelle di daino è stata acquisita dal Museo di antropologia criminale che Cesare Lombroso aveva aperto a Torino nel 1898 (le collezioni sono purtroppo tuttora chiuse al pubblico); l’avvocato difensore, dal canto suo, aveva pubblicato un memoriale che ricostruisce con umana simpatia la vicenda del suo sfortunato cliente, ma si guarda bene dallo sviluppare le riflessioni che ne potevano scaturire, prima fra tutte le diffuse complicità di cui il falso capo indiano aveva goduto nel corso dei suoi viaggi e soggiorni in Italia, presentandosi come sostenitore e benefattore del Fascismo attraverso cospicue donazioni.
Devo buona parte del materiale raccolto all’amicizia di Giorgio Colombo, curatore del volume La scienza infelice, dedicato al museo lombrosiano (Boringhieri, 1975, nuova edizione Bollati Boringhieri, 2000). Mi sono poi accorto che del caso Laplante esistevano dei reperti anche nelle memorie della famiglia di mia madre, che nel 1924 viveva a Diano Marina. Laplante aveva trascorso a Diano il mese d’agosto; soggiornava all’Hôtel du Parc, cioè nel palazzo che cinquant’anni prima era stato la casa natale di mia nonna, a poche decine di metri dalla villa di mio nonno. Nelle pause delle riunioni einaudiane del mercoledì, poi, Massimo Mila mi aveva confidato di avere incontrato Laplante alle Carceri Nuove di Torino, nel giugno del 1929. Nel 1979, infine, Dante Isella aveva pubblicato presso Scheiwiller alcune satire antifasciste in meneghino di Delio Tessa, Alalà al pellerossa (poi anche nel volume einaudiano L’è el dí di Mort, alegher (1985). Un’altra pista indiretta mi portava poi a un poeta molto amato, Giorgio Caproni, che aveva intitolato una sua raccolta del 1986 proprio a Il conte di Kevenhüller, illustre antenato delle contesse, governatore di Milano, e firmatario dell’avviso in data 1792 che indiceva la caccia contro la misteriosa belva che terrorizzava le popolazioni di Lombardia (l’autorevolezza della nobile famiglia austriaca è tale che anche a distanza di anni l’io narrante, Severino, nel suo memoriale preferisce indicarla semplicemente con l’iniziale puntata).
Se i fatti enunciati sono in larga parte autentici, la loro interpretazione, a partire dalla caratterizzazione dei personaggi, è deliberatamente e vorrei dire necessariamente romanzesca, visto che la “verità” letteraria –forse l’unica possibile- è certificata proprio dalla sua arbitrarietà, dal suo dichiarato artificio. Ho raccontato per la prima volta questa storia in Cervo Bianco (Mondadori, 1980). A distanza di vent’anni il caso Laplante –così significativo di un momento storico, quell’anno-chiave che fu appunto il 1924- non ha cessato di affascinarmi, continuando a propormi un ventaglio di possibilità narrative, che naturalmente non esauriscono le potenzialità di un intreccio così mirabolante.
Ho provato dunque a reinterpretarlo secondo nuove angolature,che sostituisce al racconto in terza persona del 1980 la testimonianza di un io narrante nella persona di Severino, il giovane segretario triestino di Laplante, che a distanza di anni si incarica di ricostruire la vicenda raccogliendo i materiali disponibili: diari, memoriali, lettere, articoli di giornale, e naturalmente la propria memoria. Ho cercato di conciliare un massimo di soggettività, quella appunto garantita da Severino, con una pluralità di voci e di interventi, come è giusto accada per una vicenda tutta recitata in pubblico, e quindi reinventata da ciascuno degli spettatori.
Ho anche di deciso di cambiare il titolo del 1980 sia per evitare gli equivoci che potevano apparentare il libro alle testimonianze autobiografiche di autentici capi indiani, la più famosa delle quali è l’adelphiano Alce Nero; sia per meglio evidenziare il carattere corale della vicenda, che va oltre il suo pur pittoresco protagonista. L’attenzione è ora concentrata sulla ricezione del personaggio, e dunque sugli italiani, sulla loro voluttà d’inganno e d’autoinganno, sul loro inesausto bisogno di maschere e finzioni teatrali. Cervo Bianco-Laplante è stato il reagente, a suo modo provvidenziale, che ci consente di entrare nei labirinti di una mentalità collettiva, e di indagare il complesso rapporto tra le folle e le personalità carismatiche.
Hanno Detto di L’anno dell’Indiano
Ferrero racconta, intrecciando con sapienza verità e finzione, sollecitando gli apporti di una realtà che sembra a sua volta inventata…Lo incuriosisce la natura del personaggio [Cervo Bianco], la sua genialità mistificatoria congiunta a una megalomania che lo rende, in qualche misura, truffatore e vittima di se stesso. Ma più lo colpisce l’irresponsabilità civile, l’autoinganno a cui si prestano tanti italiani, la fiducia concessa al ciarlatano di turno, foriera di ben più gravi, futuri danni. E il racconto, che non si nega tratti esilaranti, cede all’amarezza e allo sconforto. Il viraggio dal caso eccezionale al quadro d’epoca, dalle balordaggini individuali a quelle collettive, trova più compiuta espressione vent’anni dopo nella riscrittura del romanzo, che non si chiamerà più Cervo Bianco, ma con accentuazione epocale L’anno dell’Indiano.