La vita e le opere del grande scrittore che ci ha insegnato a ragionare e a distinguere, ad avvicinare i segreti della bellezza della materia vivente, a fissare l’orrore senza disperare.
Primo Levi non è soltanto il testimone insuperabile dello sterminio degli Ebrei e il custode della memoria, ma anche l’analista della “zona grigia”, il narratore della felicità del lavoro creativo e di profetici apologhi fantascientifici, il romanziere di una ritrovata identità ebraica, l’enciclopedista curioso e divertito, il linguista, lo zoologo, il poeta, il maestro della scrivere chiaro che “ha sempre una parola in più degli altri scrittori”. La sua opera fonde tensione etica, capacità d’osservazione e rigore dell’indagine nel cercare di rispondere alla domanda fondamentale: è questo l’uomo?
Il volume di Ernesto Ferrero, che ha potuto seguire il percorso creativo di Primo Levi dall’interno della redazione Einaudi, ce lo restituisce nella sua complessità e ricchezza, dalla classica misura d’equilibrio di Se questo è un uomo all’approdo di I sommersi e i salvati, vero capolavoro antropologico.
Primo Levi antropologo della normalità
Vorrei partire da un piccolo episodio personale. Ho conosciuto Primo Levi nel febbraio 1963, un mese prima dell’uscita de La tregua. Ero appena entrato all’ufficio stampa della casa editrice Einaudi, e non avevo ancora letto Se questo è un uomo, rifiutato da Einaudi nel 1947 e poi invece pubblicato nel 1958 in una nuova edizione con un trentina di pagine nuove.Non sapevo niente di lui, ma mi bastarono le prime tre pagine per capire che avevo tra le mani un grande libro di grande letteratura.
Diventammo amici, sia pure al modo in cui lo sono molti torinesi. Con riserbo, spendendo poche parole, facendo le cose che c’erano da fare senza parlarne troppo. Io cercavo di trasmettere ai recensori il mio e nostro entusiasmo ad ogni suo nuovo libro che usciva, ma non ce n’era bisogno. I libri di Primo la strada se la trovavano benissimo da soli. Più della critica, contavano i lettori, il bocca-a-bocca.
Ci vedevamo soprattutto in casa editrice. L’unica sera in cui mia moglie ed io riuscimmo ad averlo ospite a cena (non poteva e non voleva abbandonare la madre molto anziana, ospitata a casa sua, costretta al letto da anni) Primo portò in dono a nostra figlia bambina una cavia di peluche. Lo disse lui, che era una cavia, perché non avrei saputo dare un nome esatto al tenero batuffolo bianco e marrone chiaro. Ci commosse (ma non sorprese) il fatto che fra tanti altri animali di peluche più ovvii, come gli orsi e gli scoiattoli, lui fosse andato a scovare chissà dove proprio una cavia.
Non era un’autorappresentazione simbolica. Primo non metteva mai avanti se stesso, in questo assai simile all’amico Italo Calvino, che preferiva le posizioni defilate, in secondo piano, e come il Barone rampante guarda il mondo dai rami di un albero: un ottimo punto d’osservazione. Anzi, se mai Primo ha sempre cercato di occultare le proprie tracce, presentandosi come scrittore della domenica, chimico che scrive, dilettante senza pretese. Temeva l’aggressività dell’ambiente letterario, temeva d’essere considerato un intruso perché per campare dirigeva una fabbrica di vernici isolanti. Così ha accreditato lui stesso la leggenda di Se questo è un uomo come libro che s’era fatto quasi da solo, nato dall’urgenza di dire, raccontare, rendere testimonianza. Mentre, al contrario, è una costruzione meditata, progettata ed eseguita con rigore professionale, anche se l’autore all’epoca aveva ventisette anni.
Torniamo alla cavia. Quando la vidi, pensai alla frase di un sopravvissuto di Hiroshima, che Elsa Morante aveva voluto mettere in epigrafe al suo romanzo La Storia: “Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte”.
Primo era d’accordo con Aldous Huxley: un romanziere dovrebbe essere uno zoologo, o comunque tenere in casa molti animali. Da loro c’è sempre da imparare. Tra le tante cose che era, Primo era anche un attento osservatore di comportamenti animali, un etologo. Mi piacerebbe raccogliere in volume i racconti e le poesie che ha dedicato agli animali. Non a caso le ultime cose che ha scritto sono proprio tre dialoghi con un gabbiano, una giraffa, un ragno femmina, ognuno di essi portatori di un modo di stare al mondo.
Certo, Primo era stato uno dei tanti animali da laboratorio su cui i nazisti (ma diciamo pure i tedeschi) avevano condotto i loro immondi esperimenti di distruzione della personalità, prima ancora che della corporalità. Lui non si era lasciato annientare, non era stato né passivo né rassegnato né complice.
Il neo-laureato partito per Auschwitz aveva impegnato ogni energia intellettuale, tutta la sua cultura già solida ed estesa, nutrita di scienza e tecnica, ma soprattutto di Dante, tutta la sua capacità d’osservazione per imprimere nella mente ogni dettaglio significativo dell’atroce esperienza, e poterlo poi restituire a tempo debito.
Con la sua cavia, Primo voleva attirare la nostra attenzione sul destino di tanti esseri viventi straziati senza colpa. Voleva dire che anche gli animali, le cose, gli oggetti più umili sono, per chi abbia mente e cuore per guardali, una fonte d’infinita meraviglia e delizia. Persino i marciapiedi cittadini sono degni d’osservazione, e rivelano un quantità di dettagli sui comportamenti degli abitanti. Persino la spregevole tenia, povero essere cieco costretto ad inventarsi una laboriosa nicchia di sopravvivenza nell’intestino degli uomini, è ammirevole per la creatività con cui interpreta il copione del dramma darwiniano. Questa curiosità, che poi era una speciale capacità di saper vedere (altro tratto che Levi divide con Calvino) è riaffermata esplicitamente in un racconto inedito scritto pochi mesi prima di morire, in cui Primo spiega in una sorta di lettera scientifica di stile settecentesco come mai, bollendo, un uovo diventa sodo, invece di liquefarsi. Ebbene, dice Levi:
Finché avrò vita, continuerò a meravigliarmi non solo delle uova, ma anche delle mosche, delle moschee, dei poliedri, dei granelli di polvere dei ciottoli dei torrenti…Non esiste oggetto che non desti meravigli o curiosità, purché sia esaminato con l’occhio e fuoco e con sufficiente ingrandimento.
La ricezione dell’opera di Primo Levi, in Italia come all’estero, è stata segnata da fraintendimenti anche gravi. Per restare negli Stati Uniti, If this is Man esce nel 1961 presso Collier Books con un titolo cambiato e fuorviante: Survival in Auschwitz. Sembra quasi un reportage, in cui l’accento è posto sulle disavventure del protagonista e sulla sua miracolosa sopravvivenza, quasi il libro raccontasse una serie di peripezie che si concludono con un happy end. A parte il fatto che il libro finisce su uno scenario di morte e desolazione (l’infermeria abbandonata a se stessa), il nuovo titolo elude l’interrogazione di fondo che sale da tutto il libro: è questo l’uomo? è il tedesco, il buon padre di famiglia che appartiene al Paese più civilizzato d’Europa, il Paese di Bach e di Goethe, e pianifica lo sterminio con rigore burocratico? È l’ebreo prigioniero che diventa kapò, che collabora per guadagnare pochi giorni di vita? Auschwitz è stato un accidente della Storia, e come tale non più ripetibile, ma di fatto ripetuto ( pensiamo ai Gulag sovietici, la Cambogia, il Cile, l’Argentina, la Bosnia, il Congo-Zaire, al Sudan…)?. Oppure Auschwitz non è un’eccezione, ma una modalità inscritta nel DNA umano, è la rivelazione di un gene deviante pronto a scatenare la metastasi, il piacere sadico descritto da Sigmund Freud?
Queste sono le domande cui Levi ha cercato di rispondere per quarant’anni, questo il peso che ha portato sulle spalle quasi da solo. Chi poteva dividere con lui le sue angosce? Non certo i nichilisti alla Cioran, i quali potevano soltanto rispondere, alzando le spalle, che loro lo sapevano già; non i marxisti in crisi già tarlati dal dubbio che tra progetto sociale e biologia umana ci sia qualche scarto incolmabile; non i filosofi del dopoguerra, eleganti, sottili, capziosi, ma assai poco propensi a misurarsi con le grandi domande di fondo.
Secondo fraintendimento americano. Nel 1965 esce la traduzione di The Truce, e anche stavolta l’editore decide di cambiare titolo. Ma The Reawakening è tutt’altra cosa di The Truce. Rimanda a una sorta di tranquillizzante ritorno alla vita. The Truce significa propriamente e letteralmente un momento di intervallo tra due fasi dello stesso drammatico conflitto, e non a caso il libro termina con l’incubo della sirena di Auschwitz che ritorna. Levi non è venuto per rassicurarci, tranquillizzarci, dirci che l’incubo è finito. Al contrario, vuole turbarci, invitarci a raddoppiare la vigilanza, perché come lui stesso dice, “è successo, dunque può succedere ancora”. E difatti è successo, succede ogni giorno. Levi vuole stimolarci ad approntare strumenti interpretativi sempre più rigorosi.
Nulla è più sbagliato di una lettura semplificata, ottimistica, banalizzante, edificante della sua opera. Levi non è un santo laico che ci stupisce con la misura classica del suo equilibrio di uomo giusto e sapiente. È un uomo di scienza e di scrittura, e come tale si comporta. Non vuole commuoverci. Non si lamenta, non si atteggia a vittima. Non vuole le nostre emozioni di lettori che, nel tranquillo riparo delle loro case, si possono concedere il lusso di sentirsi buoni a costo zero.
Nella catastrofe della Shoah, è stata una fortuna per l’umanità che il vagone piombato partito dall’Italia nel febbraio e diretto ad Auschwitz trasportasse un inviato speciale, un antropologo che ancora non sapeva di esserlo, un giovane chimico che da grande avrebbe voluto fare lo scrittore ma già lo era. Non solo perché aveva scritto racconti e poesie, una delle quali, ambientata in una periferia milanese di fabbriche e opifici, parla di una sirena mattutina che richiama al lavoro, e sembra prefigurare le sirene agghiaccianti del Lager. Era scrittore perché pensava e praticava la letteratura come attività eminentemente conoscitiva.
Levi è in grado di elaborare un’interpretazione articolata dei fatti perché ha un approccio razionale -non impressionistico, non retorico- che comprende una pluralità di discipline, dalle scienze esatte alla linguistica e all’etologia. Naturalmente sapere le cose non basta. Bisogna poi sapere trasmettere la conoscenza, come hanno fatto Galileo, Darwin o Freud, che erano anche ottimi scrittori. A lungo confinato nella categoria riduttiva del testimone, lo scienziato Levi è un grande scrittore. Essere testimoni non basta. Bisogna saper vedere, capire, raccontare. Scrittore è appunto chi sceglie tra i mille particolari che fanno un istante, una situazione, un evento, i dettagli che possono spiegarlo, interpretarlo, rivelarlo a se stesso. Il come si raccontano le cose è importante quanto le cose che si raccontano. La scrittura, lo stile, sono il luogo in cui tutto diventa vero e necessario.
Proprio perché è uno scrittore-scienziato, Levi non si accontenta dei risultati già acquisiti, ripete più volte le prove, le analisi, nell’ansia di non essere mai abbastanza rigoroso. Colpisce in lui l’accanimento con cui, fino alla fine, sottopone a verifica sperimentale i dati che ha raccolto. Questo studioso di vortici, come si autodefiniva, l’uomo della ragione lucida e pacata, il presunto positivista, non ha mai nascosto la fascinazione per il suo contrario, per il caos, per l’impurità (“la vita nasce dall’impurità”, diceva). In questo è un vero figlio del Novecento. Sapeva che l’intera esistenza umana si svolge sotto il segno dell’ambiguità, della duplicità; che l’uomo, la “creatura confusa” di cui parla Thomas Mann, vive ogni giorno sulla sua pelle lo scontro tra pietà e brutalità, errore e verità, senno e follia, generosità e egoismo. Per lungo tempo, da buon tecnico di laboratorio, Levi ha osservato gli effetti di questo ibrido sconvolgente e affascinante, consapevole di non poter separare il groviglio di carne e di mente, di alito divino e di polvere. Ha avvertito egli stesso:
Ho evitato i particolari crudi e le tentazioni polemiche e retoriche. Chi leggerà potrà avere l’impressione che gli altri, ben più atroci, resoconti di prigionia abbiano passato il segno; non è così, tutte le cose che si sono lette sono state vere, ma non era questa la faccia della verità che mi interessava. Neppure mi interessava raccontare delle eccezioni, degli eroi e dei traditori, bensì, per mia tendenza e per elezione, ho cercato di mantenere l’attenzione sui molti, sulla norma, sull’uomo qualsiasi, non infame e non santo, che di grande non ha che la sofferenza, ma è capace di comprenderla e di contenerla.
Per queste ragioni I sommersi e i salvati, che riassume quarant’anni di ricerche di riflessioni, è uno dei libri-chiave del Novecento. Un libro che dovrebbe essere consegnato ad ogni cittadino che entra nella maggiore età, insieme a una copia della Costituzione, per fornirgli una bussola per il navigare nel mondo in cui sta entrando.
Levi non è un antropologo dell’eccezionale, del caso-limite, del diabolico. Si occupa della inquietante normalità dell’uomo, della sua docilità ad essere manipolato, indottrinato, plasmato e infine scagliato contro un altro uomo. Levi lavora sull’uomo così com’è. Ne conosce i limiti e le debolezze, ma non ne fa oggetto di condanna moralistica o di deprecazione. Non dimentica, non semplifica. Riconosce all’uomo l’impossibilità di soffrire le sofferenze di tutti, ma ribadisce l’importanza di non ”rendere il colpo”, di non avviare la spirale della vendetta, che degrada la vittima allo stesso livello del suo oppressore. Mette in discussione anche e soprattutto se stesso. Non si perdona nulla, i piccoli furti che ha dovuto fare in Lager per sopravvivere o la goccia d’acqua negata a un compagno. Non giudica gli altri, ma con se stesso è addirittura spietato. Torna ad analizzare fino in fondo il sentimento di vergogna che provano i sopravvissuti. Riafferma il concetto tante volte espresso che “sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della ‘zona grigia’, le spie”; che il Lager può essere raccontato solo da che l’ha sperimentato fino in fondo. Smonta e rimonta i meccanismi della memoria per denunciare la loro debolezza. Gli sembra di non essere mai abbastanza imparziale, nemmeno quando studia le giustificazioni addotte da Eichmann e da Hoess, il comandante di Auschwitz che aveva inventato le camere a gas.
Scrive che gli stessi prigionieri non sono i testimoni ideali, e non per loro colpa. Potevano difficilmente acquisire una visione d’insieme del loro universo: non sapevano nemmeno dov’erano, dov’erano gli altri Lager, per chi lavoravano, e perché. I loro occhi erano fissi al suolo, per trovare qualcosa da mangiare o da scambiare con altri. Chi poteva avere una visione più complessiva apparteneva alla categoria dei privilegiati, che di solito finivano asserviti: per questo non hanno lasciato testimonianze attendibili. I migliori storici dei Lager sono stati coloro che sono riusciti a raggiungere un osservatorio privilegiato senza piegarsi a compromessi. Spesso erano dei politici, dotati di categorie concettuali più raffinate per interpretare i fatti.
La memoria umana è dunque uno strumento fallace. I ricordi non sono incisi sulla pietra, tendono a cancellarsi, a modificarsi sotto la spinta di traumi, l’interferenza di altri ricordi, repressioni, rimozioni. La memoria delle stesse vittime rimuove le ferite più gravi e ama soffermarsi sui momenti di requie, sugli episodi comici o buffi.
In una pagina molto bella, Raffaele La Capria ha scritto che la memoria si comporta come uno scrittore: riscrive incessantemente il ricordo originale in una serie di elaborazioni progressive, di stesure che lo abbelliscono, lo modificano, lo completano delle parti mancanti. Cito: “C’è una fantasia della memoria che opera a nostra insaputa e che non ritrova il passato prelevandolo bell’e fatto da un archivio di ricordi, ma se lo inventa di volta in volta ricostruendolo con un procedimento simile a quello di un narratore, partendo da un dato o pretesto qualsiasi, a seconda del caso o dell’occasione”. La scrittura è un’interpretazione ogni volta nuova e diversa, che si sovrappone a una realtà sempre più remota, e sempre meno attingibile.
Le vittime non sono automaticamente attendibili per il fatto di essere tali, né sono automaticamente buone. Levi ha avuto il coraggio di parlare del fenomeno del collaborazionismo, anche se non lo ha giudicato. Le maggiori responsabilità ricadono, ad Auschwitz come altrove, sulle strutture dei regimi totalitari che avviano e gestiscono la macchina dell’asservimento. Nell’antropologia di Levi non esistono ruoli definibili con chiarezza. Vittime, carnefici e gente comune si incontrano nella zona neutra in cui si aggirano figure “turpi, miserevoli o patetiche”, che tuttavia non appartengono all’area dell’eccezionale, ma della normalità, anche se degradata. Restiamo nell’ambigua zona di nessuno tra chi comanda e chi subisce, in cui le responsabilità non sono nettamente definite, e l’appannarsi del senso morale conduce all’accettazione del peggio. La tanto citata “banalità del male” di cui ha parlato Hannah Arendt si incarna nella catena dei capi e dei capetti, nei “gerarchetti di retrovia”, nei “funzionari che firmano tutto”, che scuotono la testa ma acconsentono e dicono: “Se non lo facessi io, lo farebbe qualcun altro peggiore di me”.
Di lì il discorso si allarga alle pulsioni profonde che muovono sugli uomini (“Una certa misura di dominio dell’uomo sull’uomo è inscritta nel nostro patrimonio genetico di animali gregari”). Analizza i meccanismi del potere: quanto più è ristretto, tanto più il potere ha bisogno di complici e collaboratori esterni, che lega a se compromettendoli, così da costringerli a non poter più tornare indietro. Studia i comportamenti degli oppressi: tanto più dura è la repressione, tanto più è diffusa in loro la disponibilità a collaborare col potere. Dallo studio delle reazioni quanto meno ambigue dei tedeschi del dopoguerra si possa alla puntuale contestazione della cosiddetta storiografia revisionista, che tende a minimizzare o addirittura a negare la realtà dello sterminio degli ebrei.
Tra i riscontri critici che I sommersi e i salvati ottiene in Italia, Levi ha dichiarato di prediligere quello di Giovanni Raboni, che lo aveva definito «essenzialmente polemico e ‘irritante’». Un libro che non sollecita il consenso, ma vuole piuttosto il disagio di chi ha rinunciato a sapere di più, a rivoltarsi. La sua importanza e tempestività consistono invece nel riproporci la nuda, insuperabile oggettività dei fatti; nello sfidare le sottigliezze dell’intelligenza in nome di un “solido, dolente senso comune”; nell’opporre alla labirintiche delizie della complessità “una memoria elementare, opaca, faticosa”.
Da buon chimico, Levi non si è stancato di distinguere gli elementi, di pesarli, di analizzare le loro proprietà. Per lui la conoscenza passa dalla mani, dal naso, dai sensi, come accade a “ogni ingenuo realista”. Non ha l’ambizione filosofica di arrivare alla radice assoluta della conoscenza, vuole soltanto “scendere da un livello all’altro, cercando ogni volta di comprendere un po’ di più rispetto a prima”. Rifiuta le interpretazioni totalizzanti e la scorciatoia delle ideologie, si sottrae alla tentazione di attribuire i fatti a una supposta “natura” dei tedeschi. Sa bene di non poter attingere la verità o la realtà: “Ho soltanto ricostruito un segmento, un piccolo segmento del mondo. In un laboratorio industriale, questa è già una grande vittoria”.
Alla fine del suo percorso scrittorio, Levi sembra voler assumere ancora una volta i panni del bastian contrario, che si muove in controtendenza, che non appare mai là dove te lo aspetti. Nell’immediato dopoguerra, quando l’Italia è immersa nel fervore della ricostruzione e in una rimozione di quel che è appena accaduto, ci chiede di riportare lo sguardo su quello che è appena capitato. Verso la fine degli anni ’50, quando si è creato un sufficiente distacco storico per studiare la Shoah, scrive racconti che hanno l’aria del divertimento scientifico, e sfida l’ipocrisia del “politicamente corretto”, che lo vorrebbe fissato nel santino del martire e testimone. Negli “anni di piombo” del terrorismo italiano osa affermare che il lavoro non è soltanto schiavitù e alienazione, e che anzi saperlo svolgere con passione e competenza può addirittura rappresentare una buona approssimazione alla felicità. Ai profeti di sventura, che annunciano il collasso delle società complesse, diventate troppo fragili per via della complicazione dei loro sistemi di controllo, oppone una sorridente fiducia nelle capacità dell’homo faber, che riuscirà a rimediare ai suoi stessi errori. All’inizio degli anni ’80, quando in Italia si celebrano i fasti di un nuovo superficiale edonismo, torna a sottoporci una tragica verità: Auschwitz è sempre, ciò che è stato può essere ancora; siamo noi stessi, i presunti “normali”, i potenziali abitanti della città del Male. Basta poco per trasformarci nei complici degli assassini di massa.
Il messaggio di Primo Levi non è mai stato catartico, conciliante, rassicurante. Levi non cerca la pacificazione, non è un positivista che vuole ristabilire l’ordine violato del mondo iscrivendolo nelle caselle di una griglia prefissata.
Ha affrontato a viso aperto, attraverso strategie letterarie sottili e magari dissimulate, le tensioni, le scissioni, le contraddizioni del ‘900, a cominciare dalle “spaccature paranoiche” che attribuiva a se stesso. Ma ha anche rivendicato una “flessibilità intellettuale che non teme le contraddizioni, anzi le accetta come un ingrediente immancabile della vita”; ha operato dei cortocircuiti tra istanze d’ordine e curiosità trasgressive, ha vagheggiato la creazione di nuovi ibridi, non si è sottratto al rischio del mostruoso. Come ha scritto (rivendicato) egli stesso, l’impostazione scientifica della sua mente poteva convivere con l’attrazione per l’assurdo, l’amore dell’ordine naturale con il gusto di sovvertirlo con giochi combinatori, l’umanesimo con una “educata malvagità”. È nota la sua passione per gli ibridi. Tale si sentiva egli stesso:
Levi cerca la chiarezza non attraverso lenti approfondimenti o un’estenuata ricerca di sfumature, ma tramite uno scontro, una scintilla che scocca tra i due poli contrapposti dell’ossimoro. Pier Vincenzo Mengaldo ha dimostrato in un saggio magistrale, vero caposaldo degli studi leviani, che è proprio l’ossimoro, la figura retorica degli opposti e dei conflitti, la chiave per comprendere l’atteggiamento con cui Levi guarda allo spettacolo di una realtà “affascinante e sinistra”, nelle contraddizioni sue e degli uomini. Ossimori a due o addirittura a tre elementi (“turbato, diffidente e commosso”; “un viso alacre, ridente e triste”) che rappresentano “il massimo omaggio che la razionalità di Levi, naturalmente chiara e distinta, e semplificatrice, abbia reso alla complessità ardua, al caos, alla contraddittorietà ed ambivalenza, irriducibili e conturbanti, che abitano tanta parte della realtà”.
Levi è dunque venuto a insegnarci la diffidenza verso tutto quello che sembra facile, immediato, comprensibile. Per questo la sua non è un’archeologia, ma un laboratorio sempre aperto, affacciato sul futuro. Come il suo amico Calvino, pensa che dalla facilità vengono solo disastri. È abituato a muoversi in un ambiente ostile, difficile. Sa che la materia è ostile, opaca, ambigua, traditrice. L’universo è in preda a una feroce instabilità permanente. I mattoni costitutivi della materia sono governati dall’asimmetria: il tema della sua tesi di laurea ritorna ossessivamente negli ultimi scritti.
Oggi più che mai abbiamo bisogno di coltivare l’inquietudine, il disagio e la vigilanza. La partita è sempre aperta, il laboratorio non può permettersi di chiudere, mai. Per difendere quel poco che resta dell’umano, occorre continuare a ripensare e a riscrivere la propria storia, inseguire nuovi documenti, vagliare altre prove, organizzarle in nuove ipotesi interpretative. Italo Calvino ha scritto che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha dire. Ebbene, la nostra comprensione di quel classico contemporaneo che è Primo Levi, patrimonio dell’umanità, è appena cominciata.
New York, ottobre 2009