I migliori anni della nostra vita

I migliori anni della nostra vita

Questo libro racconta l’educazione sentimentale di un ragazzo che entra a far parte di un gruppo di persone speciali, che sognano di cambiare il mondo con i libri. È una storia d’amore e odio, di seduzioni incrociate, di forti passioni intellettuali e civili, e ha come palcoscenico una casa editrice, in Via Biancamano a Torino. A guidarla è un leader geniale e provocatorio, sospinto da un’insaziabile fame di novità: Giulio Einaudi,

Dalla sua posizione privilegiata, il ragazzo guarda e racconta – con adesione, divertimento e indulgenza- una storia che è insieme privata e collettiva, dai primi anni sessanta alla morte di Pasolini, con cui sembra chiudersi un’epoca di speranza febbrili e si annunciano gli “anni di piombo”.

Sul filo della memoria, rivivono incontri memorabili e scontri laceranti, scoperte e delusioni, drammi improvvisi, intermezzi comici scanditi dalle battute di un lessico famigliare. I personaggi che li affollano sono colti nella dimensione privata della vita d’ogni giorno, e fissati in una serie di ritratti indimenticabili: Giulio Bollati alter ego di Einaudi, il fantasioso Vittorini, il silenzioso Calvino, il “senatore” Bobbio e Massimo Mila, placido bastian contrario. E poi Natalia Ginzburg, Primo Levi chimico timido, l’ingegner Gadda in lotta con le sue nevrosi, Carlo Levi, Leonardo Sciascia, Elsa Morante, Paolo Volponi, l’inquieto Pasolini. Insieme a tanti scrittori che hanno fatto grande il Novecento italiano, numi tutelari come Gianfranco Contini, redattori e semplici comparse, ospiti e “compagni di strada”: Bruno Munari maestro zen di grafica, Fellini, Marcuse, il giovane Tiziano Terzani inviato nella Cina di Mao…Fino a Philip Roth, in cui si rinnova ciclicamente un altro dramma, quello di Cesare Pavese, un nodo doloroso e segreto, fatto oggetto di una implacabile rimozione.

Una stagione memorabile della cultura italiana rivive così in un romanzo famigliare che ha per tema conduttore la costruzione di una possibile felicità.

Il backstage dei Migliori anni

Come è entrato in Einaudi, nel 1963?

Sono entrato per concorso. Alla fine del 1962 Einaudi cercava un responsabile dell’ufficio stampa perché Guido Davico Bonino, che lo aveva retto sino ad allora, doveva assumere le redini della segreteria editoriale, in pratica il cuore del sistema operativo della casa. Risposero in 120, ci furono dei colloqui di selezione con tutta la direzione, e fu quella la prima volta che –emozionatissimo- entrai nella sala delle riunioni, affacciata su corso re Umberto, e mi sedetti al tavolo ovale dei mercoledì. Avevo appena affidato in lettura a Davico Bonino, di cui ero amico, un romanzo resistenziale in stile “simil-Gettoni” (la famosa collana di Vittorini). Si venne a parlare anche di quello. Einaudi si fece raccontare la storia, sembrava esserne incuriosito. Mi parve di veder vibrare le sue famose antenne.
Dopo qualche giorno mi fu chiesto di scrivere un “risvolto” di prova, perché allora l’ufficio stampa si occupava anche della gestione dei “risvolti” e delle “quarte”di copertina, insomma di quello che oggi si chiama il “paratesto” (la scelta dell’illustrazione di copertina toccava invece a Giulio Bollati). Mi fu affidato –come racconto nel libro- un romanzo difficile perché minimalista, I contrattempi sentimentali di Lullina Baligioni Terni. Vi si succedeva assai poco, piccoli eventi quotidiani, increspature emotive. Credo di aver scritto un testo legnoso, un po’ rattrappito, ed ero convinto d’aver sprecato la grande occasione della mia vita: entrare nel Parnaso einaudiano, che ai miei occhi rappresentava ogni possibile perfezione. A Calvino, insuperabile maestro di “risvolti”, non piacque molto. Einaudi decise invece che andava bene. Così fui assunto. Non credevo ai miei occhi.

E’ sua la definizione del libro come ‘romanzo con personaggi veri’? Se pure non fosse, ci si riconosce?

Raffaele La Capria ha scritto nel suo nuovo e bellissimo libro, L’estro quotidiano, una pagina straordinaria su come funziona la memoria: da narratore, appunto. La memoria sceglie e conserva della nostra vita alcuni particolari che ritiene interessanti, e lavora senza posa su quelli, riscrivendoli e reinventandoli continuamente. La nostra memoria è uno strato millefoglie di rappresentazioni che si sovrappongono e modificano senza fine: è un work in progress che si svolge a nostra stessa insaputa. Accade così anche me. I personaggi storici e “veri” sono diventati dei personaggi miei, un prodotto della mia sensibilità, che pure è partita dall’osservazione di dati reali. È il paradosso della letteratura, finzione e menzogna che –se sono oneste- arrivano alla sola verità che conta, quella della pagina. Come diceva Lalla Romano, solo ciò che è raccontato vive.
I protagonisti/testimoni ancora in vita della stagione einaudiana potrebbero raccontarla in modi anche molto diversi dal mio, anzi, l’hanno già fatto. Per esempio il Calvino di Davico Bonino (Alfabeto Einaudi, Garzanti) parla moltissimo, il mio invece pochissimo. E il Giulio Einaudi che potrebbe raccontare Orengo sarebbe sideralmente distante dal mio, perché lui ne ha avuto una diversa percezione. Per questo ho parlato di romanzo, e mi sembra che recensori e lettori su questo siano d’accordo.

Qual è il suo mestiere? Editore, scrittore, storico, direttore della Fiera di Torino? Quanto c’è di einaudiano in questo eclettismo?

Il lavoro che mi piace di più, che credo di saper fare meglio o meno peggio, è quello dello scrittore. Scrivere mi è necessario come respirare o camminare, mi appaga. Ma mi sono divertito moltissimo a lavorare nell’editoria (d’una volta) e la Fiera del libro mi diverte ancora molto, perché la intendo come servizio civile. Da ragazzo volevo fare del cinema, ho musicato poesie di Brecht e Eluard. Il mio primo libro è stato addirittura un lavoro lessicale, un dizionario dei gerghi della mala. Troppe cose insieme? Può darsi, ma l’importante è fare cose divertenti, gratificanti. Questo credo sia un tratto einaudiano, la curiosità. Un editore è un curioso che non sa nulla di specifico (non è uno specialista di qualche cosa, tranne casi rarissimi), ma vuole saperne di più di tante cose. Vuole cercare, sperimentare, capire. Forse, come accade agli attori, una sola identità non mi basta. Difatti i miei libri, a ben vedere, girano proprio attorno al problema dell’identità.

Si ha l’impressione che la sua figura einaudiana di riferimento sul piano intellettuale fosse Giulio Bollati. E’ una lettura corretta? Se sì e se no, per che ragioni?

Sì, mi sentivo molto vicino a Giulio Bollati, che difatti chiamavo “Il Maestro”. Per temperamento, carattere, interessi culturali. Bollati aveva un lato materno, sapeva ascoltare, amava consigliare. Si interessava a te, ai tuoi problemi, a quello che facevi e avesti potuto fare. Gli piaceva pigmalioneggiare, per così dire. Tutti e due, maestro e allievo, eravamo poi affascinati dall’editore, così diverso, così vitale, così vampiro di sangue giovane. Tutti e due, a un certo punto, abbiamo “rotto” con Einaudi, anche drammaticamente. Io però l’ho ricuperato, e gli ultimi anni con lui sono stati bellissimi. Era un ottantenne giovanissimo, curioso e geniale come sempre ma senza più asprezze e arroganza. Le batoste l’avevano reso più umano, quasi perfetto. Lo diceva lui stesso sorridendo: “Sono diventato buono”. Quando veniva a cena a casa nostra erano momenti di grande allegria e divertimento. Mia moglie (la più einaudiana di tutti) e le mie figlie lo adoravano. Con lui, uomo che detestava la noia sopra ogni altra cosa, non ci si annoiava mai.

Posto che sia possibile rispondere, a quale degli scrittori nominati nel libro si sente più legato?

Nella Einaudi di quegli anni, casa editrice e affetti privati, letteratura e vita quotidiana si mescolavano continuamente. Non esisteva un confine certo. I grandi scrittori erano altrettanti nonni, zii, fratelli maggiori, cugini, molto amati come persone prima che ammirati per le loro opere: Vittorini, Calvino, la Ginzburg, Carlo Levi, la Morante, Gadda, Sciascia, Volponi, Parise, Lalla Romano, Manganelli, Magris, Ceronetti, Fruttero e Lucentini, tantissimi altri. Il più caro di tutti per me è stato Primo Levi. Il primo giro di bozze che mi sono trovato sul tavolo è stato quello di La tregua. Ho scoperto un uomo e uno scrittore che poi centinaia di migliaia di lettori di tutto il mondo hanno imparato ad amare come uno dei più importanti del ‘900. Dovessi racchiuderlo in una definizione, userei quella che ha coniato Luciana Nissim, che era finita ad Auschwitz con lui: “la più alta espressione”. Dell’intelligenza, della disponibilità, della gentilezza, della misura. Di tutto quello che fa la grandezza di un essere umano. Era un uomo giusto, il giusto dei giusti. E un grande scrittore, a lungo confinato nella qualifica, assai riduttiva, di testimone.

In una delle sue ultime interviste, Giulio Einaudi sosteneva che non bisogna lamentarsi della scomparsa dei maestri. Altri ne nasceranno, altri già lo sono. Lei che di maestri ne ha conosciuto molti, come la pensa?

Einaudi ha ragione quando dice che bisogna sempre guardare avanti, non farsi isterilire dalla nostalgia. Ma di grandi maestri oggi ne vedo pochi, e ce ne saranno sempre meno. Per il semplice fatto che oggi è più difficile crescere e maturare nei giusti tempi biologici, come una volta. Se sei bravo, ti chiedono di produrre a ritmi forzati, intensivi. Ti mettono alla catena di montaggio di te medesimo. La nostra è e sarà sempre di più una società senza padri. Oggi il coraggio, la forza, la concretezza e il senso etico mi sembrano molto più femminili che maschili. Confido nelle future maestre…

Ritiene Lei che sia ancora possibile un’editoria di cultura al modo che l’ha intesa Einaudi nel Novecento?

Oggi ci sono molti buoni e ottimi editori “di progetto”, in specie medi e piccoli, e io faccio il tifo per loro. Ma è cambiato tutto, o quasi, e soprattutto non esistono più i personaggi che facevano l’unicità del modo di lavorare del gruppo Einaudi. E non c’è più il direttore d’orchestra che lavorava non sull’unanimità, ma sulle differenze, sullo scontro dialettico. La ricerca esasperata della redditività è diventata più importante del progetto editoriale. Di fatto, oggi un marchio editoriale è meno importante e lo sarà sempre meno. Gli stessi libri possono uscire indifferentemente da questo o quello editore. In America il nome dell’editore è addirittura scomparso dalle copertine, uno vale l’altro. Una volta il libro Einaudi, o di altri editori molto connotati, lo comperavi a scatola chiusa. Adesso ci pensi tre volte.

Per quale motivo il libro ignora quasi del tutto i risvolti economici dell’avventura einaudiana?

Il mio non è un lavoro storiografico. Ne accenno soltanto perché non credo che in un romanzo i dettagli economici siano importanti. Il grande problema della casa editrice è sempre stato la sua costituzionale debolezza finanziaria. Einaudi non ha mai voluto che entrassero nuovi capitali per non farsi condizionare dai nuovi soci ed essere totalmente libero nelle scelte. Certo, alla fine ha pagato a caro prezzo questa libertà, e l’ha fatta pagare a molti. Però penso che il piatto della bilancia continui a pendere dalla parte del catalogo che ha costruito, e che per decenni è stato la vera università degli italiani, un vanto dell’intero Paese.
Gianni Bonina
Per “Stilos”, 2005

Hanno Detto di I migliori anni della nostra vita

…Uno straordinario romanzo storico. Ferrero ha il dono del ritrattista benevolo e leggero: riesce a raccontare i personaggi che ha e non ha incontrato con la straordinaria capacità di coglierne i caratteri fisici, psicologici e morali. I loro pregi, i loro difetti, i loro tic e i loro capricci. Sembra di vederseli di fronte miracolosamente riportati a nuova vita dalla narrazione. Romanzo storico e psicologico-familiare: l’autore coglie il grumo di umori, furori, risentimenti, complessi edipici, narcisismi, invidie, silenzi,sottomissioni, prevaricazioni, ingratitudini tipici di un complesso nucleo parentale, per quanto allargato come quello einaudiano, ma insieme riesce a far emergere il contesto, l’aria del tempo, i subbugli di un’epoca….La lettura che appassiona, commuove, smuove nostalgie e irritazioni.

Paolo Di Stefano Corriere della sera

L’accento posto da Ferrero sull’esperienza vissuta vale come primo, immediato motivo d’interesse. Uno che c’è stato può raccontare con dovizia d’informazioni le vicende di un’impresa culturale che ha lasciato un segno così profondo sulla vita italiana… Il nome di Natalia Ginzburg suggerisce un’aria di Lessico famigliare in cui hanno parte,nella varietà dei comportamenti, Calvino e Vittorini, Gadda e Primo Levi, Bobbio e Mila, Manganelli e Pasolini…Di tutti Ferrero incide ritratti memorabili, al fisico e al morale. Infilza nelle loro posture rivelatrici i partecipanti al rituale teatrino del mercoledì, al ritiro montano di Rhêmes. La sua passione di einaudiano non gli nega qualche spiraglio di soffice ironia su una realtà che non fu idilliaca. Non elude spigolosità e bizzarrie dei maestri. Non assolve le infatuazioni ideologiche di allora, foriere di malintesi e contrasti… Ferrero parla di Einaudi per parlare di sé. E ci dà, senza parere, sotto specie memorialistica, una avvincente storia di iniziazione.

Lorenzo Mondo Tuttolibri

Il lettore farà bene a cercarci ciò che di sicuro vi troverà: la foto di gruppo, con tutti i cerimoniali, di quella che fu a tutti gli effetti una corte…Ma anche il ritratto memorabile, che in Ferrero si sa organizzare indifferentemente, e con grande estro, attorno a un’oltranza fisiognomica (Manganelli) o un’intuizione psicologica (Pavese)… Una vasta folla di persone che, dentro queste pagine intense, sono ormai trasumanate in personaggi. Ferrero ha scritto il libro avventuroso del suo apprendistato alla vita: affidandolo a un refrain che, nonostante gli schermi d’una vigile ironia, restituisce continuamente l’ipotesi di una felicità che, ora, si è sicuri d’avere, e per lungo tempo, posseduto.

Massimo Onofri Diario

Un’autobiografia “comunitaria” che ci riguarda tutti, un’interpretazione di un presente lacunoso alla luce dell’esperienza einaudiana.

Giorgio Ficara

Un libro incantevole che si legge come un romanzo! C’è un pizzico di perfetta nostalgia e una vera mise en espace del tempo passato…come solo un vero scrittore, con un suo stile consolidato e suggestivo poteva fare. Quante annotazioni rare e indimenticabili. Un testo che non annoia neanche un minuto! Grazie con tutto il cuore.

Giosetta Fioroni

Per dirla in maniera semplice semplice: è proprio un gran bel libro… Da scrittore e non da storico Ferrero ha affrontato l’impresa, scrivendo una sorta di romanzo in cui c’è un protagonista, lui stesso, che però cede spessissimo la scena ad altri personaggi che la occupano per lungo tempo o in maniera del tutto provvisoria… Nei ritratti che hanno fatto la storia dell’Einaudi, Ferrero dà il meglio di sé.

Felice Piemontese Il Mattino

Con quanta vivezza e precisione ci vengono incontro i protagonisti della cultura italiana del Novecento raccolti intorno alla casa editrice e alla figura geniale e viziata del grande Giulio, figlio di un padre ancora più grande, Luigi Einaudi! Come non esserne catturati?…Ferrero eccelle nei ritratti colti dal vivo, nel raccontare le scene di cui è stato testimone.

Andrea Casalegno Il Sole 24Ore

Bellissimo! Se devo definire con un aggettivo questa scrittura, direi: soave.

Luciana Stegagno Picchio

Ancora una volta mi ha affascinato la particolarità di Ferrero scrittore, quel far riconoscere personaggi e ambienti reali non cedendo mai, nemmeno una parola, alle sabbie mobili della cronaca, del “memoriale”. Ma riproponendo tutto come invenzione. Un documento interessantissimo. E un romanzo affascinante.

Folco Quilici

Ferrero riesce nel capolavoro di raccontare la vera storia di un’educazione editoriale che riflette la storia culturale del Paese, con le mode, le manie, i tic intellettuali di una generazione che ha sperimentato la felicità…Chi ne ha praticato usi e costumi lo legge come una cronaca sentimentale. Chi invece l’ha scoperto attraverso i libri ritrova un mondo fantastico, costruito come un romanzo inventato.

Pasquale Chessa Panorama

Ferrero coglie, con la sua capacità di finissimo ritrattista, i lati più umani e aneddotici dei protagonisti di quegli anni: un piccolo capolavoro il ritratto del vecchio Gadda.

Guido Conti Italia Oggi

Un romanzo vero, anzi un’epopea, che è rimasta nella memoria di tutti coloro che amano i libri di cultura, e che fa piacere rinfrescare in questi tempi di torpore mentale afoso e sterile.

Giuseppe Bonura Il Giorno