Francoforte addio?

È notizia di questi giorni: molti grandi gruppi editoriali inglesi e americani hanno deciso di rinunciare alla Fiera di Francoforte, attesa dal 14 al 18 ottobre: per motivi sanitari, ma anche economici. La Buchmesse è molto costosa, e forse non più così necessaria in epoca digitale. Anche alcuni gruppi italiani, come Mondadori e Mauri Spagnol sembrano orientati sulla stessa linea, almeno per quest’anno. 

Solo la guerra era riuscita a fermare la Fiera del libro di Francoforte, quella stessa su cui nel 1805 la contessa d’Albany, che senza muoversi da Firenze era sempre perfettamente informata di tutto, aveva scagliato le sue perfide e lucide ironie: “Alla Fiera sono state presentate cinquemila novità, la più parte delle quali già vecchie prima che fosse finita”. Bisognò attendere il 1949 per l’edizione della rinascita, ospitata nella chiesa di San Paolo appena ricostruita. L’anno dopo seguì il trasferimento nella sede attuale, sempre più vasta, più organizzata, più impeccabilmente tedesca. Il posto dove tutti speravano di catturare la balena bianca, dove si entrava nella maggiore età. Vittorio Sereni ha raccontato ne L’opzione le notti passate a leggere il dattiloscritto del best-seller annunciato, perché alla mattina bisognava fare un’offerta con molti zeri. Ma anche una sorta di allegro raduno mondano, con gli affollatissimi dopocena al Frankfurter Hof dove tutti si abbracciavano festanti come parenti che si ritrovano.

Una sorta di ballo del Gattopardo, di cui la pandemia ha accelerato un finale già scritto. Ci si andava sempre meno convinti, e sempre più intristiti dai costi elevati. Negli immensi padiglioni le assenze diventavano pesanti, gli editori italiani finivano confinati in spazi un po’ marginali con nazioni che non erano proprio delle potenze librarie. Da tempo l’editoria deve fare i conti con le accelerazioni furibonde dell’età digitale. Tutto funziona a colpi di clic, si misura a ore, a minuti, come a Wall Street. Viviamo una Buchmesse sempre aperta, dematerializzata, come tante altre cose. Il Covid-19 ha confermato agli editori quello che già sapevano: l’editoria si può fare da casa, con risparmi non indifferenti. Purché sia davvero smart, cioè sappia guardare un po’ più in là dell’anno in corso. La contessa d’Albany non avrebbe dubbi: covid o non covid, l’importante è non fare libri defunti prima di nascere. 

“La Stampa”, 10 giugno 2020

 

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