Il ritorno di Cassola

Montecarlo di Lucca, l’incantevole borgo che da solo vale il viaggio e in cui lo scrittore ha trascorso i suoi ultimi anni, ha ospitato il 15 settembre l’inaugurazione della mostra Sconfinamenti. Le terre lontane di Carlo Cassola, che documenta la fortuna delle sue opere all’estero, e i rapporti con scrittori e culture di altri paesi. Nella stessa giornata si è tenuto un incontro di interventi, testimonianze e letture, per la regia di Alba Andreini, che ha curato mirabilmente il Meridiano Mondadori di Racconti e romanzi, e la pubblicazione di singole opere negli Oscar.

Gian Arturo Ferrari ha ricostruito la storia dei rapporti della Mondadori con Cassola. Nel mio intervento, ospitato qui sotto, ho raccontato i momenti salienti del ventennale ménage dello scrittore con la Einaudi, che corrisponde anche al suo periodo più felicemente creativo. Principale interlocutore con la casa editrice torinese è stato Italo Calvino.

Potrei intitolare questo breve intervento Un matrimonio del dopoguerra, dal titolo di un romanzo di Cassola degli anni ’50, perché quello con la casa editrice Einaudi è stato un vero proprio ménage che è durato vent’anni e rimane molto importante nella storia dello scrittore, perché coincide con il suo periodo più felicemente creativo. E perché le storie letterarie non prendono quasi mai in considerazione il rapporto tra autore ed editore, che specie in quegli anni era fortemente dialogico. Allora era pratica corrente un’interlocuzione serrata e approfondita, che finiva per andare tutto vantaggio della qualità delle opere.

Dialogo che naturalmente era molto franco e diretto, e dunque poteva avere le sue spine, le sue turbolenze, come appunto in questo caso. La coppia non poteva essere composta da soggetti più diversi. Da una parte l’editore torinese che dopo la morte di Pavese stava costruendo la propria leadership con autori-collaboratori di primissimo piano come Calvino e Vittorini e corroborava il suo carisma con una certa dose di sprezzatura un po’ snob e oggi diremmo radical-chic. Un editore fortemente ideologizzato e impegnato politicamente, come quasi tutta l’intellettualità dell’epoca, che si era prefisso di provvedere nientemeno che alla formazione civile degli italiani per seguire una vocazione pedagogica molto torinese e condivisa con i santi sociali. E che in ogni caso era in grado di offrire al coniuge in arrivo dalla Toscana una casa arredata in modo mirabile. La rigorosa eleganza della grafica einaudiana corrispondeva perfettamente all’asciuttezza della scrittura cassoliana.

Dall’altra parte c’era un giovane professore, nato a Roma da una famiglia borghese, ma diventato adulto nella provincia toscana, tra Volterra, Cecina e Grosseto, che scopre il Joyce dei Dublinesi e del Dedalus, e ne ricava una sua poetica detta subliminare, ma sin da giovane si dedica all’antifascismo militante, prima come liberalsocialista, poi nel Partito d’Azione. Partecipa alla Resistenza in una formazione che combatte sulle colline di Volterra, conosce e apprezza operai, alabastri e boscaioli, cui rimane profondamente affezionato, che animeranno poi romanzi e racconti, ma presto capisce che gli slanci palingenetici della Resistenza si esauriranno in una politica fatta non dal basso mai dai burocrati di partito, da giochi di potere da cui si sente estraneo: la politica dei politicanti. E capisce che solo la letteratura poteva fare per lui.

Il suo primo romanzo, Fausto e Anna, che nel 1952 approda negli appena inaugurati Gettoni di Vittorini, collana riservata agli emergenti, rispecchia fedelmente quelle delusioni. Racconta il duplice fallimento di Fausto: amoroso, per la sua incapacità di abbandonarsi alla pienezza del sentimento; e politico, perché Cassola, non si allinea all’uso strumentale che il PCI fa della Resistenza, annettendosela in toto e dipingendola con i colori più lusinghieri. Difatti il romanzo scatena una polemica politica per lesa Resistenza sulle colonne di “Rinascita”, il settimanale del partito, in cui interviene anche Togliatti nei modi urticanti che gli erano propri e di cui aveva già fatto le spese Vittorini ai tempi del “Politecnico”.

Tuttavia non è Vittorini l’interlocutore di Cassola, è e resterà Calvino, in quella che diventerà una sorta di sit-com letteraria, fatta di scaramucce, piccoli scontri, riappacificazioni, schiaffi e carezze. I due hanno una visione del mondo e della letteratura troppo diversa. E’ Calvino a manifestare le sue perplessità su Fausto e Anna, intitolato originariamente Anna e i comunisti, in una lettera del luglio 1951. Cassola era arrivato in Einaudi su segnalazione di Silvio Guarnieri, ma sin dal 1948 non tirava un’aria troppo buona per lui. Tre suoi racconti non erano piaciuti a Natalia Ginzburg, Pavese, che già aveva bollato Il taglio del bosco di “bozzetto fucinano”, non aveva avuto tempo di leggerli ma aveva concluso che appartenevano “alla onesta e noiosetta letteratura della rivista. Non interessano nessun vero lettore”.

Calvino esordisce dicendo che lo trova un libro assai serio e non facile ma che gli preferisce Il taglio del bosco, che dà una misura migliore del suo impegno e del suo stile. Questa gli sembra “una cronaca di costumi provinciali annotati meticolosamente, e poi una serie di tentativi di fuga, di vie d’uscita che subito si rivelano meschine, soffocate da quel peso di banalità che insegue i personaggi qualsiasi cosa facciano o dicano, fino alla Resistenza, dove il contrasto tra la cruda e massiccia importanza dei fatti e l’incapacità di capire del protagonista si fa più vistosa. Un protagonista che non impara niente dalla vita, in cui ogni tappa dell’evoluzione intellettuale si trasforma in un grigio dato di costume”.

Il libro, aggiunge Calvino, potrebbe essere letto addirittura come un Bouvard e Pécuchet nella nostra generazione, con tanto di luoghi comuni, abitudini della piccola borghesia provinciale, addirittura le battute dei giornali umoristici. Certo, la biografia di Fausto è forse quella di tutta la loro generazione, una storia di giovani provinciali, ma a lui dà il disagio di una vecchia fotografia. Insomma, Fausto non matura una vera autocoscienza, non evolve, si rassegna troppo presto e troppo facilmente.

Risponde Cassola stupendosi che romanzo gli sia sembrato di difficile comprensione o addirittura a chiave. Vero che la biografia di Fausto vuole essere quella di una generazione, ma respinge l’accostamento a Bouvard e Pécuchet. Flaubert fa una raccolta di idee correnti con piglio decisamente sarcastico, lui lui fa parlare i suoi operai e partigiani come parlavano nella realtà, perché non poteva certo attribuire loro un linguaggio biblico o lirico o favoloso. E chiede di essere giudicato sulla base dei risultati poetici e non su quella di schemi storicizzanti. Non aveva tutti i torti.

Comunque il libro viene approvato in riunione e nel suo risvolto Vittorini riconosce a Fausto di incarnare gli umori della sua epoca, di cui ci viene fornita una specie di cronaca psicologica. Non è uno di quei risvolti che facciano felici un autore, ma quelli di Vittorini erano così, un po’ criptici, quasi fumosi, che sembravano fatti apposta per scoraggiare il lettore o metterlo alla prova.

Due anni dopo, con il secondo libro, I vecchi compagni, che ritorna sulle vicende resistenziali sempre sulle note di un disincanto non più medicabile, siamo invece della fase delle carezze. Scrive Calvino: “Devo dirle che I vecchi compagni mi è piaciuto molto. Forte, contenuto, pungente com’è. Dà la migliore misura sua. Lei sa che io non ho amato Fausto e Anna, che mi è parso troppo effuso e vago. Questo è diverso: e le dico che vorrei piacesse anche ai miei compagni di partito, perché pur nel suo asciutto pessimismo mi pare abbia una tenuta morale e una verità rare.”

Tuttavia permangono in Cassola antiche carenze affettive, quel suo sentirsi isolato, sostanzialmente poco compreso, poco considerato, lontano dai riti e dalla mondanità dei salotti letterari che contano. Non può campare del suo solo stipendio di professore, ma le collaborazioni giornalistiche lo affaticano e lo distraggono. Per questo insisterà con Einaudi per avere un fisso mensile di anticipo sui diritti. Di qui anche una serie di evasioni o di tentativi di evasioni extraconiugali, si intende in senso editoriale. Cerca o vagheggia contatti con altri editori, condizioni più soddisfacenti, ma soprattutto una vicinanza, un calore umano, quello di cui per esempio lo gratificano amici come Manlio Cancogni e Franco Fortini. E così ad esempio pubblica presso Feltrinelli Il soldato, guadagnandosi i rabbuffi Einaudi. Lui si giustifica: ha ceduto alle pressioni di Bassani, l’amico che da 15 anni ha fatto il possibile per lui, quando nessuno voleva pubblicare negli niente (11 rifiuti tra il 1946 del 1951) ma anche per ragioni finanziarie.

Se Cassola non crede alla ragione di partito, specie dopo i fatti d’Ungheria, è anche critico verso quella congrega di letterati puri che secondo lui sacrificano ancora troppo alla letteratura dell’ermetismo, che gli suonano troppo raffinati e salottieri, quasi estenuati: lo stesso Bassani, Pasolini, Garboli, Citati, il salotto Bellonci, il giro della rivista “Paragone”, cioè Longhi e Anna Banti, Emilio Cecchi. Lontani da quella vita semplice, lineare, in cui lui si ostina a cercare, in un impeto di sobrio lirismo, il senso ultimo della vita, il suo splendore nascosto in accadimenti e affetti e sentimenti anche minimi ma rivelatori. Come scriverà Calvino, nei suoi libri “anche i gesti minimi dei mestieri e dell’artigianato, ma anche quelli semplicissimi della vita quotidiana, sono come avvolti da una sorta di sacralità laica, da un’aura inesprimibile che sembra contenere in sé stessa, come un aroma, il senso che andiamo invano cercando”.

Nella discussione con Calvino, che si protrae negli anni, Cassola dichiara di detestare anche gli scrittori-filosofi, gli scrittori engagés portatori di messaggi troppo espliciti, con il loro manicheismo ideologico, i Sartre, i Camus, la de Beauvoir, che giudica dei veri mostri (ma gli sembrano mostruosi anche Thomas Mann e Picasso). Anche a me non piace la letteratura degli intellettuali, gli risponde Calvino, e difatti contro Gide ha scelto Hemingway, lo scrittore tutto fatti della concretezza minimalista, però va anche detto che Camus e Sartre hanno avuto il merito di esprimere, ”con una freddezza che è poesia, la crudezza e mostruosità nel mondo contemporaneo”.

Intanto in lettere ad amici editori o in conferenze all’estero, Calvino ha deciso di iscrivere Cassola in una corrente che lui chiama neo-flaubertiana. “”Il suo mondo è quello degli artigiani e della piccola borghesia provinciale: un mondo semplice, di semplici sentimenti, di semplici frasi della conversazione di tutti i giorni registrate con scrupolosa fedeltà. Il segreto di Cassola sta in questo tono grigio, in questo suo parlare a bassa voce, in questa sua rigorosa cronaca di giornate qualsiasi; ed è lì che nasce il senso di disperazione e nello stesso tempo la forza che sostengono i suoi romanzi… Sia in Cassola che in Bassani il romanzo nasce dal contrasto tra l’elemento epico e tragico, di tensione morale che la Resistenza ha rappresentato nelle esistenze individuali e nella storia collettiva, e l’elemento lirico, elegiaco del tempo che tutto seppellisce, addormenta, cancella; ed è questo secondo elemento il vero vincitore. Dietro a questi scrittori la voce di poeta più vicina è quella triste e classica di Umberto Saba, il suo opporre una malinconica intelligenza al male del mondo.”

Nel 1957 Cassola pubblica sempre da Einaudi Un matrimonio del dopoguerra, e Calvino gli testimonia il suo vivo apprezzamento (“Ci ho messo un po’ a capirti”, confessa) e si rallegra che abbia accolto certi suoi suggerimenti, ma non risparmia commenti anche un po’ acidi: “Ora si sviluppa bene e quel finale non è sospeso nel vuoto. È pessimistico da morire: la Resistenza approda nell’abbraccio col fascista, nostro ineliminabile cognato e fesso come noi, e la fabbrica, sgradevole e senza speranza, è l’unica alternativa all’avventura e alla galera. Del resto, sono le donne che comandano e bisogna pensare alla famiglia. Beh, come quadro della situazione non c’è male”.

Cassola, sempre grato delle riflessioni del suo interlocutore, non è d’accordo sul pessimismo: Pepo, il protagonista, è come tanti giovani, sani, semplici, positivi. Niente gioventù bruciata e perduta. La sua è una condizione umana che può essere modificata. Dunque è un racconto “progressista, addirittura alla De Amicis o alla De Sica”.

Nel dicembre 1958 altro scambio epistolare per il racconto Angela, di cui Cassola si dichiara insoddisfatto: vuole ampliarlo svilupparlo, farne un romanzo (il racconto sarà poi pubblicato con il titolo La maestra in Storia di Ada, nel 1967). Calvino non è d’accordo: “Angela non va? Angela va da Dio! È uno dei tuoi più bei racconti! Quel tanto di ingenuo che talora ha in un contesto per nulla ingenuo, finissimo invece, è una delle tue rese migliori. Non va affatto ampliato: guai! È una delle poche volte che ti vedo fare un racconto compiuto. E compiuto stupendamente, con quell’ultimo capitolo, con quello che adombra o che svela solo all’ultimo. E bellissimo è il tenere in ombra per tutto il racconto, e non parlarne mai, i rapporti col marito. Lo vuoi allargare a romanzo? Puoi farlo, con calma. Può darsi che venga anche bello, ma sarà un’altra cosa”.

Arriva il 1960 e il successo della Ragazza di Bube, “libro molto bello”, scrive Einaudi all’autore, “ma quel Bube in copertina non ci suona bene: forse sarà che tutto quanto in letteratura, ha sapore di popolaresco-toscano, suscita quassù in istintivo moto di diffidenza”. Cassola partecipa quasi di malavoglia al premio Strega, più che altro per l’insistenza degli amici Spagnoletti e Carlo Levi, anche se abbastanza presto si convince che il romanzo può diventare, come di fatto diventerà, il libro dell’anno. Ma al premio Strega partecipano due altri autori Einaudi, Calvino con Il cavaliere inesistente e Arpino con La suora giovane. Bei tempi quelli in cui gli editori non mettevano becco nel premio e gli Amici della domenica potevano votare senza subire pressioni indebite. Ma anche il successo per distacco de La ragazza di Bube, presto raddoppiato dal fortunato film di Comencini con Claudia Cardinale, viene un po’ offuscato da una piccola polemica letteraria: Pasolini scrive ironicamente un’orazione nello stile di quella shakespeariano di Marco Antonio per accusare Cassola di avere accoltellato a morte il realismo. E Cassola sospetta che dietro questo scherzo satirico ci sia addirittura la committenza di Calvino, il che non è. Calvino non aveva l’animo di uno Jago. Dedica al romanzo una lunga recensione su “Mondo operaio”, e loda Mara come “forse la prima apparizione umana positiva di grande statura nella nuova letteratura italiana”. Mara che si sacrifica a qualcuno che non la vale,”perché solo così può esprimere l’importanza della vita, dare una lezione al mondo che la circonda. Questa “salvezza dei semplici” a Bube è negata: “rimane allo stato larvale come intelligenza storica e umana di ciò che ha fatto e si esprime solo con idee ricevute”. Resta un uomo “fiacco, sbadato, pressapochista, passivo, non sorretto da quel fuoco interiore che solo poteva giustificarlo”.

Le posizioni che Cassola difende con tanta accorata fermezza restano per Calvino un lievito che non cessa di fermentare, di produrre nuove riflessioni e approfondimenti, magari anche provocazioni o durezze, come quando su “il Giorno” arriva a parlare di “romanzi sbiaditi come l’acqua della rigovernatura dei piatti, in cui nuota l’unto di sentimenti ricucinati”. Romanzi non di Cassola, ma anche di Cassola. In una conferenza del 1961 per una tournée in alcune città del nord, Calvino propone un Dialogo tra due scrittori in crisi, ambientato in uno spazio estraneo ad entrambi, un caffè di via Veneto a Roma, il luogo stesso della finta gioia di vivere, di finta eccitazione, di finta ricchezza: un abisso vuoto. Per Cassola “la letteratura del nostro secolo ha sbagliato tutto, è una letteratura intellettualistica, arida, sfalsata alle radici dalle premeditazioni polemiche”; bisogna tornare ai sentimenti, all’adesione diretta alla vita dei grandi scrittori dell’Ottocento. Io gli controbatto, dice Calvino, “ che si deve esprimere la vita moderna, nella sua durezza, nel suo ritmo, e anche nella sua meccanicità e disumanità, per trovare le fondamenta vere dell’uomo d’oggi.

Nella discussione siamo portati entrambi a rendere estreme le nostre posizioni: io mi accanisco soprattutto per far arrabbiare lui e anche un po’ perché credo a quello che dico, lui si accanisce ancora di più soprattutto perché crede in quello che dice, e anche un po’ per farmi arrabbiare”. Replica Cassola: “Riuscirà a esprimere veramente il nostro tempo chi saprà voltargli le spalle, chi cercherà le cose profonde, non le apparenti, le cose che restano, non gli aspetti passeggeri…” E Calvino: “Ma bisogna viverlo, questo tempo, buttarcisi dentro, patirlo…” Cassola: “ No, bisogna opporgli un rifiuto, non accettare le sue ragioni, non leggere nemmeno il giornale”. Commenta Calvino: “Lui per raggiungere eterne verità umane ritorna a raccontare i lunghi pomeriggi casalinghi delle ragazze di campagna; io per esprimere il ritmo della vita moderna non trovo di meglio che raccontare battaglie e duelli dei paladini di Carlo Magno. Chi di noi è fuori dalla realtà? Lo siamo tutti e due? O nessuno dei due lo è?… Ciò che possiamo dire oggi è solo questo: il romanzo di domani sarà proprio quello che meno siamo oggi in grado di prevedere”.

Il matrimonio tra il tormentato professore di Grosseto e gli alteri torinesi finisce nel 1972. E vi rientrano antichi dispiaceri, eterne insicurezze, il bisogno di rimettere tutto in discussione, la necessità di nuove sfide. Il Cassola che si trasferisce a Milano ripudia la poetica aurorale di gioventù, ma anche la produzione recente. La letteratura non gli basta più, gli sembra un gioco sterile e autoreferenziale. Si dichiara invece un fervente sostenitore della letteratura impegnata, pacifista, animalista, ambientalista, antimilitarista come Tolstoj, Einstein e Bertrand Russell, tutta tesa a diffondere messaggi positivi e salvifici, convinto che l’uomo corra alla sua rovina. La crisi è personale, esistenziale, creativa. In una intervista dichiara:”Mi accanisco a distruggere i miti che mi avevano guidato sia delle scelte che avevo fatto nella vita sia nelle scelte che avevo fatto in letteratura.” Ma questa è un’altra storia.

Vorrei chiudere con una poesia negli anni 60 in cui Franco Fortini celebra nell’amico Cassola la “stella polare dell’auto interrogazione”, come scrive Alba Andreini nel suo bel saggio introduttivo al Meridiano:

Tu che i miei anni stessi hai misurato/ ostinato al tuo vero,/ insegnami il sentiero/ astuto e triste/ dove sei passato/ la soglia d’aria/ Dove resisti e vinci”.

Scrivi una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Puoi utilizzare questi tag e attributi HTML:

<a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>