Quando le lettere diventano colore. La matita magica di Lino Di Lallo

Sin dai tempi del suo straordinario Quo lapis? (Einaudi 1994) seguo il lavoro di Lino Di Lallo con vera ammirazione. Molisano trapiantato a Firenze, dove ha studiato con Eugenio Battisti, architetto, artista visivo e performer, lettore raffinatissimo, linguista per diletto dalle curiosità inesauribili, ha messo a disposizione la verve della sua arte combinatoria, che molto sarebbe piaciuta a Calvino, dell’educazione artistica che bisognerebbe fare nelle scuole e che lui ha fatto concretamente nelle medie della periferia di Firenze. Nessuno come lui sa coinvolgere i ragazzi in percorsi creativi che assomigliano un po’ a quelli proposti da Gianni Rodari: applicati alle arti visive ma non dimentichi delle potenzialità che nascono dal connubio tra colore, parole e immagini, nel segno del gioco. Quelle appunto esemplate in Quo lapis?
Negli ultimi anni Di Lallo ha lavorato ad un suo specialissimo alfabeto, dove le singole lettere diventano dei pretesti per una serie di variazioni in cui la sua poetica leggerezza ha modo di sollevarsi in ogni possibile invenzione fantastica e cromatica.
La sua nuova mostra, ALPHABETODILALLO, è stata ospitata dalla biblioteca San Giorgio di Pistoia, dal 24 giugno al 26 agosto. Qui di seguito il testo che avevo avuto il piacere di scrivere per lui, e che la accompagna.

 

In principio era il Colore. Poi è stato il Verbo. La parola ha cercato di dire l’infinita meraviglia dei colori che “fanno” il mondo, di reinventarli, evocarli, raccontarli, surrogarli, tentando eroicamente un equivalente fatto di analogie e metafore. Per Lino Di Lallo tra Colore e Parola, tra Arte e Letteratura non c’è opposizione, ma integrazione, corrispondenza d’amorosi sensi: la loro congiunzione astrale produce cortocircuiti fantastici, ininterrotti cimenti dell’armonia e dell’invenzione.
Prima di corrispondere a un suono, ogni lettera è disegno, è una micro- pittura, un concentrato di possibilità. Di Lallo usa le lettere come prismi. Colpendole, la luce si scompone rivelando inesauribili tesori cromatici, che si compongono in una fuga di allegre geometrie, a suggerire un qui che è anche un favoloso altrove. Un Big Bang in perpetuo divenire, così come lo può registrare un caleidoscopio ben temperato. Vi possono restare impigliati volti, occhi, matite, scarpe, grattacieli, città (o sogni di città, le calviniane città invisibili), filamenti agitati da invisibili venti cosmici (lo Pneuma della creazione originaria?). Collages teneri, sorridenti, divertiti, in cui l’alba del colore, della parola e del suono coincidono.
“I colori stimolano alla filosofia”, scriveva Wittgenstein, citato da Di Lallo in un suo libro di vent’anni fa, Quo lapis?, che dava conto dei suoi pirotecnici esperimenti didattici nelle scuole toscane, dove la Parola e il Colore diventavano le particelle subatomiche frullate da un acceleratore low cost e a km zero. Favorendone le collisioni, maestro e allievi ci introducevano agli stessi misteri gaudiosi della creatività che si celebrano in questo nuovissimo Alfabeto.
Scriveva Goethe, che annetteva più importanza ai suoi studi sul colore che alla sua stessa arte poetica: “Se l’occhio percepisce un colore, viene subito messo in attività ed è costretto per sua natura, in modo tanto inconscio quanto necessario, a produrne subito un altro che insieme al dato includa la totalità della gamma cromatica. Ogni singolo colore stimola nell’occhio, mediante una sensazione specifica, l’aspirazione alla totalità”. L’esperienza del colore come aspirazione alla totalità accomuna arte, scienze, filosofia e lettere nella stessa sfida conoscitiva che ha coinvolto maestri come William Turner, van Gogh, Gauguin, Kandinskij, Klee, Albers. Di Lallo parla il loro stesso linguaggio. Se all’arte chiediamo di portarci un po’ più in là del punto dove stiamo, le sue invenzioni cromatiche e verbali sono altrettanti aquiloni che ci sottraggono alla forza di gravità. Mettono la stessa allegria che prova un bambino alla scoperta del mondo.

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