Un bellissimo saggio di Silvia Romani esplora una delle figure più complesse e fascinose della mitologia
Il monumentale labirinto vegetale che Franco Maria Ricci ha inaugurato a Fontanellato ripropone in nuove forme quella che resta l’icona più affascinante dei miti greci. Intrigante anche perché si sottrae ad ogni spiegazione definitiva: tanti scavi e dottissimi studi non hanno ancora fornito risposte esaurienti. Come altrettanti Tesei possiamo soltanto ripercorrere a ritroso il filo delle sue apparizioni, in tavolette, monete, coppe, manufatti artistici che dalla Grecia arrivano all’Etruria, ai mosaici delle chiese cristiane, alla pittura del Rinascimento. Un must figurativo e concettuale che continuiamo a sentire come qualcosa di famigliare ed elusivo al tempo stesso.
Chi dice labirinto dice Arianna, e il corteggio dei personaggi che le continue elaborazioni mitiche le hanno via via affiancato: oltre a Teseo, Minosse suo padre (nato dall’unione di Zeus in sembianze di toro con Europa), la di lui lussuriosa consorte Pasifae, madre del mostruoso Minotauro; l’astuto architetto Dedalo dal genio leonardesco, il designer ateniese finito servizio del potente re minoico; Dioniso che compare in scena come consorte di Arianna dopo l’inspiegabile abbandono di Teseo a Nasso, Fedra sorella di Arianna che probabilmente la sostituisce nelle momentanee passioni di quel seduttore seriale che è l’eroe; e uno sterminato plotone di dèi e divinità d’ogni ordine e grado, che intervengono a complicare il plot con una sorta di tigna condominiale.
Arianna ha un altissimo numero di occorrenze in letteratura, arte, musica, da Omero ed Esiodo a Borges perchè è multipla, plurima, inafferrabile, materia di suggestioni inesauribili. Non offre certezze nemmeno alle indagini serrate che le dedica una giovane e bravissima mitologa, Silvia Romani, che ha anche un’ottima mano di scrittura, e firma con Maurizio Bettini un volume appunto dedicato a Il mito di Arianna (Einaudi, pp. 280, Euro 30,00). E tuttavia inseguirne le tracce lungo i millenni è più emozionante di un thriller.
Prima sorpresa. Non c’è traccia di lei e della sua disturbatissima famiglia nel palazzo di Cnosso, che nel 1900 l’allora quarantenne Arthur Evans, archeologo, giornalista e comunicatore geniale riporta alla luce e sistema a modo suo, con gusto di scenografo e fantasia di romanziere, attribuendo con sovrana libertà gli spazi appena scavati. Convinto che Creta sia l’unica e vera culla della civiltà greca, ricostruisce, assembla, riallestisce, restaura, ridipinge, decreta: questa è La Loggia, questo il Megaron della Regina, il Caravanserraglio, la Casa delle Doppie Asce …
Tuttavia fino a quando nel 1952 Michael Ventris riesce a decifrare le tavolette della cosiddetta scrittura Lineare B, quello della civiltà minoica resta un meraviglioso libro di figure senza testo: un mondo favoloso di affreschi policromi, divinità floreali, sacerdotesse dagli occhi bistrati e dal vitino di vespa, principi piumati, acrobati in volo sulle corna di un toro, immerso in un’eterna primavera. Se una qualche letteratura parlava di loro, è andata perduta. Le tavolette di Cnosso sono dei noiosi elenchi di merci e persone, in cui non c’è traccia della famiglia reale e delle sue storie molto splatter.
Le fonti minoiche non riportano mai il nome di Arianna, che resta un’invenzione ateniese, al pari dell’intero ciclo mitico: con buona pace di Evans, sono i vincitori a “scrivere” i loro miti, oltreché la storia. Al massimo le fonti parlano di una “potnia”, un’anonima signora del labirinto che forse è anche una potente divinità, se merita l’omaggio di un’intera anfora di miele tutta per lei. Per arrivare a trovare la parola “labirinto” scritta in greco bisogna aspettare Erodoto, che peraltro la attribuisce alla tomba di un faraone egizio del 1.797 a.C.; e addirittura la casa di Marco Laurenzio a Pompei per una figurazione grafica (Labyrinthus Hic Habitat Minotaurus).
Ariadne “dalla bella chioma” (epiteto che si riserva alle divinità) compare istoriata sullo scudo di Achille forgiato da Efesto, che Omero descrive minutamente nel bel mezzo dell’Iliade, in una sorta di catalogo fondativo della civiltà greca arcaica. È lui a parlare delle speciale “danza delle gru” che Dedalo avrebbe insegnato ad Arianna, con le file di aristocratici giovinetti, leggeri come farfalle e legati per i polsi, che ondeggiano con movimenti a spirale: possiamo ravvedere stilizzate qui le stesse circolarità del labirinto. Il “ballo del mulinello” e il suo motivo grafico dovevano essere diffusi in tutto il Mediterraneo se lo troviamo istoriato nel cosiddetto vaso François scoperto a Chiusi a fine ‘800 ma risalente al 570 a.C. o nell’ancora più antica brocca di Tragliatella (670 a.C.).
Sono molte, le Arianne dei miti. C’è la principessa cretese, assurta agli onori divini di una simil-Afrodite o di dea madre, come qualcuno ipotizza. C’è l’ingenua adolescente che si lascia incantare dalla prestanza dello straniero che viene a sfidare nella sua tana il mostruoso Minotauro e lo abbatte a pugni; e parte con lui, rinnegando patria e famiglia. C’è l’innamorata abbandonata nel sonno su una spiaggia di Nasso, che diventa il prototipo dell’amor tradito, poi replicato in Medea, Didone, Scilla. E c’è infine la fertile e prolifica sposa di un Dioniso che compare provvidenzialmente sulla scena quando Teseo se ne è già fuggito, come in una dissolvenza incrociata: oggetto di culti festosi, ripagata con un eros gioioso e appagante, che ha lo splendore della carnalità matura dei quadri di Tiziano.
Anche qui non mancano le varianti. Plutarco, citando uno storico locale, la vuole morta di parto a Cipro, dove Teseo l’aveva sbarcata per sfuggire a una tempesta; ma citando un’altra fonte la vede confinata a Nasso con la nutrice e addirittura suicida per impiccagione, come Antigone, per il dolore dell’abbandono. Per Esiodo, la bionda Arianna sposa Dioniso nel buio delle caverne cretesi e procrea un figlio che si chiama Enopione, come a dire Sbevazzone, in omaggio al DNA paterno. Omero nell’Odissea la dice uccisa da Artemide prima di raggiungere “la sacra rocca di Atene” e prima che Teseo possa goderne, alla presenza di Dioniso muto testimone (curioso che Omero accrediti Teseo, gran libertino e violentatore di fanciulle, di non aver approfittato della sua preda). Pausania identifica il suo sepolcro ad Argo, dove i locali avevano dedicato un tempio a Dioniso. Altri ancora parlano di un’assunzione in cielo come costellazione, a titolo di risarcimento postumo.
Anche se i poeti e i mitografi greci appaiono più interessati a Teseo che a una principessa forestiera, a noi oggi piace interpretare Arianna come una donna che non ha paura di sfidare il proprio destino, di fare scelte rischiose. Non si rassegna agli spazi claustrofobici, ivi inclusi quelli famigliari, in cui la vogliono rinchiudere, a Creta come a Nasso. Il vero tratto che ha in comune con il volubile Teseo è il non guardarsi mai indietro, non conoscere dubbi o rimorsi, seguire il proprio istinto vitale.
Le pene dell’amor perduto sono invece quelle che affascinano Catullo. Per lui Arianna è la statua della solitudine e dell’abbandono, la maestra dell’arte del lamento e dell’invettiva contro il fedifrago (“Nessuna donna creda più ai giuramenti di un uomo”). Ovidio ne fa una fanciulla un po’ pietrificata, rigida, angustiata (come tutti i Greci) dall’ossessione di restare insepolta, preda di fiere e uccelli. Per fortuna arriverà Dioniso ad offrirle una reggia ben più grande di quella di Cnosso, rarissimo esempio di happy end.
L’unione tra i due, che Nonno di Panopoli racconta come il matrimonio un po’ kitsch di un parvenu semiselvaggio che ama accompagnarsi con un esotico corteggio di fiere, è poco rappresentata da poeti e prosatori, e invece prediletta dall’arte rinascimentale, a partire dal tizianesco Trionfo di Bacco e Arianna (1523), motivo poi replicato su tanti cassoni nuziali. Ma già sulle pareti di Pompei erano tra le figure più attestate, con lei mollemente abbandonata a sogni che preludono all’arrivo consolatorio del dio.
Dichiaratamente lieta è la prospettiva di Lorenzo il Magnifico nella sua celebre Canzona di Bacco, in cui i due, “belli e l’un de l’altro ardenti”, vivono il loro rapporto nella speciale consapevolezza di chi sa che ” ‘l tempo fugge e inganna” e dunque occorre saper godere l’attimo fuggente. Un’Arianna che entra trionfalmente a corte, a Firenze o nella Ferrara di Alfonso d’Este, che progetta il suo studiolo proprio pensando a lei. Vi collabora anche Dosso Dossi con il suo Arrivo di Bacco all’isola di Nasso. I due compaiono trionfalmente nelle più celebri corti del Rinascimento, a partire da Palazzo Te (Giulio Romano, 1527). A Palazzo Ducale, Tintoretto fa incoronare con un serto di stelle Arianna (qui chiamata a simboleggiare Venezia) da una Venere in volo. Annibale Carracci, in Palazzo Farnese a Roma, inscena un tripudio di figuranti, stoviglie, cibo e strumenti musicali, degno di un colossal hollywoodiano. Guido Reni celebra i trionfi solari dell’amor profano (1620). La sposa di Dioniso continua ad alternarsi con il motivo della fanciulla abbandonata, che torna nell’Arianna di Monteverdi, rappresentata a Mantova nel 1608 per le nozze di Francesco Gonzaga: un’opera di cui ci è rimasto soltanto il celebre lamento, suggellato dal “lasciatemi morire” finale. Seguiranno tra Sette e Ottocento l’Arianna in Creta di Händel e l’Arianna a Nasso di Richard Strauss, su libretto di von Hofmannsthal. Thomas Corneille, fratello di Pierre, aveva messo in scena un’Arianna violenta e passionale, in aspro conflitto con la sorella Fedra, che si prende la scena anche nella Fedra di Racine.
Nel Settecento Arianna riceve l’omaggio di pittrici come la classicheggiante Angelika Kauffmann, amica di Goethe; o Elisabeth Vigée-Lebrun, che la ritrae nei panni di Lady Hamilton. Per i preraffaelliti, è la ghiotta icona di un erotismo sofisticato, elegantemente estenuato, come nell’olio di John William Waterhouse (1898). Figlia di Nietzsche è l’idea di Giorgio De Chirico di un abbandono di Arianna che si consuma nello spazio vuoto di una piazza italiana, neoclassica e perfettamente metafisica. Si identifica in lei Elizabeth Browning, moglie del poeta Robert, che aveva sposato contro il volere paterno. Grace Greenwood, prima donna a scrivere su “The Times”, la trasforma in un’ardente modello di femminismo rivendicativo.
Anche Marina Cvetaeva opera un transfert autobiografico. Per lei Arianna è una giovane tranquilla che attende il compiersi del suo destino con una sorta di superiore distacco, un po’ più vecchia di Teseo e un po’ troppo condiscendente. Autobiografica è anche l’Ariadne abbandonata di Sylvia Plath che sta già meditando il suicidio, mentre un Gide ironico e un po’ misogino ne fa una figura querula e noiosa, tale da meritare l’abbandono.
Ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese fa dialogare Arianna con la ninfa Leucotea. L’imminente arrivo di Dioniso è annunciato dall’afrore che sale da un vigneto da cui sale uno stordente “odore rasposo, tra di fico e di pino”.
E il povero Minotauro, pur riabilitato da psicologi del profondo come Jung?
A lui tocca la solidarietà di Pablo Picasso, che lo considerava una sorta di alter ego, e il risarcimento di grandi scrittori. Per la Yourcenar ( Chi non ha il suo Minotauro?) il Labirinto è una sorta di inconscio solcato dai lampi delle premonizioni, e il suo Teseo confessa: “C’è una sola cosa che preferirei all’uccidere il Minotauro: essere il Minotauro”. Nel dramma I Re Julio Cortázar vuole che tra Arianna e il mostro corra un legame intimo e profondo: aiutando Teseo, concorre alla trasformazione del fratellastro in un simbolo che ci riguarda tutti come parte di qualcosa che alberga nelle profondità del nostro io. Jorge Luis Borges ne fa un gigante buono, prigioniero indifeso della sua stessa diversità, condannato alla solitudine in una sterminata vastità di sale e corridoi sempre uguali, in attesa che qualcuno venga a liberarlo con la morte (“Non ci crederai –dirà alla fine Teseo ad Arianna- non si è nemmeno difeso”). Anche per Dürrenmatt la sua è la storia di un essere costretto a non essere, recluso in un gioco crudele di specchi e illusioni. Buon bestione privo di scaltrezze umane, l’unico rapporto che troverà con gli umani sarà solo di inganno e di morte. Meglio la sua presunta bestialità del cinico gioco di seduzione e di potere condotto da quel perfetto politico che è Teseo. Come ci ammonisce Giorgio Ieranò (Eroi. Le grandi saghe della mitologia greca, Sonzogno, pp. 255, Euro 16,00) nel mondo oscuro del mito eroismo è sinonimo di violenza ed eccesso, di furori implacabili e di astuzie omicide”. È forse proprio per questo che lo sentiamo così vicino e famigliare.
“Sette/Corriere della sera”, 13 novembre 2015
Il monumentale labirinto vegetale che Franco Maria Ricci ha inaugurato a Fontanellato ripropone in nuove forme quella che resta l’icona più affascinante dei miti greci. Intrigante anche perché si sottrae ad ogni spiegazione definitiva: tanti scavi e dottissimi studi non hanno ancora fornito risposte esaurienti. Come altrettanti Tesei possiamo soltanto ripercorrere a ritroso il filo delle sue apparizioni, in tavolette, monete, coppe, manufatti artistici che dalla Grecia arrivano all’Etruria, ai mosaici delle chiese cristiane, alla pittura del Rinascimento. Un must figurativo e concettuale che continuiamo a sentire come qualcosa di famigliare ed elusivo al tempo stesso.
Chi dice labirinto dice Arianna, e il corteggio dei personaggi che le continue elaborazioni mitiche le hanno via via affiancato: oltre a Teseo, Minosse suo padre (nato dall’unione di Zeus in sembianze di toro con Europa), la di lui lussuriosa consorte Pasifae, madre del mostruoso Minotauro; l’astuto architetto Dedalo dal genio leonardesco, il designer ateniese finito servizio del potente re minoico; Dioniso che compare in scena come consorte di Arianna dopo l’inspiegabile abbandono di Teseo a Nasso, Fedra sorella di Arianna che probabilmente la sostituisce nelle momentanee passioni di quel seduttore seriale che è l’eroe; e uno sterminato plotone di dèi e divinità d’ogni ordine e grado, che intervengono a complicare il plot con una sorta di tigna condominiale.
Arianna ha un altissimo numero di occorrenze in letteratura, arte, musica, da Omero ed Esiodo a Borges perchè è multipla, plurima, inafferrabile, materia di suggestioni inesauribili. Non offre certezze nemmeno alle indagini serrate che le dedica una giovane e bravissima mitologa, Silvia Romani, che ha anche un’ottima mano di scrittura, e firma con Maurizio Bettini un volume appunto dedicato a Il mito di Arianna (Einaudi, pp. 280, Euro 30,00). E tuttavia inseguirne le tracce lungo i millenni è più emozionante di un thriller.
Prima sorpresa. Non c’è traccia di lei e della sua disturbatissima famiglia nel palazzo di Cnosso, che nel 1900 l’allora quarantenne Arthur Evans, archeologo, giornalista e comunicatore geniale riporta alla luce e sistema a modo suo, con gusto di scenografo e fantasia di romanziere, attribuendo con sovrana libertà gli spazi appena scavati. Convinto che Creta sia l’unica e vera culla della civiltà greca, ricostruisce, assembla, riallestisce, restaura, ridipinge, decreta: questa è La Loggia, questo il Megaron della Regina, il Caravanserraglio, la Casa delle Doppie Asce …
Tuttavia fino a quando nel 1952 Michael Ventris riesce a decifrare le tavolette della cosiddetta scrittura Lineare B, quello della civiltà minoica resta un meraviglioso libro di figure senza testo: un mondo favoloso di affreschi policromi, divinità floreali, sacerdotesse dagli occhi bistrati e dal vitino di vespa, principi piumati, acrobati in volo sulle corna di un toro, immerso in un’eterna primavera. Se una qualche letteratura parlava di loro, è andata perduta. Le tavolette di Cnosso sono dei noiosi elenchi di merci e persone, in cui non c’è traccia della famiglia reale e delle sue storie molto splatter.
Le fonti minoiche non riportano mai il nome di Arianna, che resta un’invenzione ateniese, al pari dell’intero ciclo mitico: con buona pace di Evans, sono i vincitori a “scrivere” i loro miti, oltreché la storia. Al massimo le fonti parlano di una “potnia”, un’anonima signora del labirinto che forse è anche una potente divinità, se merita l’omaggio di un’intera anfora di miele tutta per lei. Per arrivare a trovare la parola “labirinto” scritta in greco bisogna aspettare Erodoto, che peraltro la attribuisce alla tomba di un faraone egizio del 1.797 a.C.; e addirittura la casa di Marco Laurenzio a Pompei per una figurazione grafica (Labyrinthus Hic Habitat Minotaurus).
Ariadne “dalla bella chioma” (epiteto che si riserva alle divinità) compare istoriata sullo scudo di Achille forgiato da Efesto, che Omero descrive minutamente nel bel mezzo dell’Iliade, in una sorta di catalogo fondativo della civiltà greca arcaica. È lui a parlare delle speciale “danza delle gru” che Dedalo avrebbe insegnato ad Arianna, con le file di aristocratici giovinetti, leggeri come farfalle e legati per i polsi, che ondeggiano con movimenti a spirale: possiamo ravvedere stilizzate qui le stesse circolarità del labirinto. Il “ballo del mulinello” e il suo motivo grafico dovevano essere diffusi in tutto il Mediterraneo se lo troviamo istoriato nel cosiddetto vaso François scoperto a Chiusi a fine ‘800 ma risalente al 570 a.C. o nell’ancora più antica brocca di Tragliatella (670 a.C.).
Sono molte, le Arianne dei miti. C’è la principessa cretese, assurta agli onori divini di una simil-Afrodite o di dea madre, come qualcuno ipotizza. C’è l’ingenua adolescente che si lascia incantare dalla prestanza dello straniero che viene a sfidare nella sua tana il mostruoso Minotauro e lo abbatte a pugni; e parte con lui, rinnegando patria e famiglia. C’è l’innamorata abbandonata nel sonno su una spiaggia di Nasso, che diventa il prototipo dell’amor tradito, poi replicato in Medea, Didone, Scilla. E c’è infine la fertile e prolifica sposa di un Dioniso che compare provvidenzialmente sulla scena quando Teseo se ne è già fuggito, come in una dissolvenza incrociata: oggetto di culti festosi, ripagata con un eros gioioso e appagante, che ha lo splendore della carnalità matura dei quadri di Tiziano.
Anche qui non mancano le varianti. Plutarco, citando uno storico locale, la vuole morta di parto a Cipro, dove Teseo l’aveva sbarcata per sfuggire a una tempesta; ma citando un’altra fonte la vede confinata a Nasso con la nutrice e addirittura suicida per impiccagione, come Antigone, per il dolore dell’abbandono. Per Esiodo, la bionda Arianna sposa Dioniso nel buio delle caverne cretesi e procrea un figlio che si chiama Enopione, come a dire Sbevazzone, in omaggio al DNA paterno. Omero nell’Odissea la dice uccisa da Artemide prima di raggiungere “la sacra rocca di Atene” e prima che Teseo possa goderne, alla presenza di Dioniso muto testimone (curioso che Omero accrediti Teseo, gran libertino e violentatore di fanciulle, di non aver approfittato della sua preda). Pausania identifica il suo sepolcro ad Argo, dove i locali avevano dedicato un tempio a Dioniso. Altri ancora parlano di un’assunzione in cielo come costellazione, a titolo di risarcimento postumo.
Anche se i poeti e i mitografi greci appaiono più interessati a Teseo che a una principessa forestiera, a noi oggi piace interpretare Arianna come una donna che non ha paura di sfidare il proprio destino, di fare scelte rischiose. Non si rassegna agli spazi claustrofobici, ivi inclusi quelli famigliari, in cui la vogliono rinchiudere, a Creta come a Nasso. Il vero tratto che ha in comune con il volubile Teseo è il non guardarsi mai indietro, non conoscere dubbi o rimorsi, seguire il proprio istinto vitale.
Le pene dell’amor perduto sono invece quelle che affascinano Catullo. Per lui Arianna è la statua della solitudine e dell’abbandono, la maestra dell’arte del lamento e dell’invettiva contro il fedifrago (“Nessuna donna creda più ai giuramenti di un uomo”). Ovidio ne fa una fanciulla un po’ pietrificata, rigida, angustiata (come tutti i Greci) dall’ossessione di restare insepolta, preda di fiere e uccelli. Per fortuna arriverà Dioniso ad offrirle una reggia ben più grande di quella di Cnosso, rarissimo esempio di happy end.
L’unione tra i due, che Nonno di Panopoli racconta come il matrimonio un po’ kitsch di un parvenu semiselvaggio che ama accompagnarsi con un esotico corteggio di fiere, è poco rappresentata da poeti e prosatori, e invece prediletta dall’arte rinascimentale, a partire dal tizianesco Trionfo di Bacco e Arianna (1523), motivo poi replicato su tanti cassoni nuziali. Ma già sulle pareti di Pompei erano tra le figure più attestate, con lei mollemente abbandonata a sogni che preludono all’arrivo consolatorio del dio.
Dichiaratamente lieta è la prospettiva di Lorenzo il Magnifico nella sua celebre Canzona di Bacco, in cui i due, “belli e l’un de l’altro ardenti”, vivono il loro rapporto nella speciale consapevolezza di chi sa che ” ‘l tempo fugge e inganna” e dunque occorre saper godere l’attimo fuggente. Un’Arianna che entra trionfalmente a corte, a Firenze o nella Ferrara di Alfonso d’Este, che progetta il suo studiolo proprio pensando a lei. Vi collabora anche Dosso Dossi con il suo Arrivo di Bacco all’isola di Nasso. I due compaiono trionfalmente nelle più celebri corti del Rinascimento, a partire da Palazzo Te (Giulio Romano, 1527). A Palazzo Ducale, Tintoretto fa incoronare con un serto di stelle Arianna (qui chiamata a simboleggiare Venezia) da una Venere in volo. Annibale Carracci, in Palazzo Farnese a Roma, inscena un tripudio di figuranti, stoviglie, cibo e strumenti musicali, degno di un colossal hollywoodiano. Guido Reni celebra i trionfi solari dell’amor profano (1620). La sposa di Dioniso continua ad alternarsi con il motivo della fanciulla abbandonata, che torna nell’Arianna di Monteverdi, rappresentata a Mantova nel 1608 per le nozze di Francesco Gonzaga: un’opera di cui ci è rimasto soltanto il celebre lamento, suggellato dal “lasciatemi morire” finale. Seguiranno tra Sette e Ottocento l’Arianna in Creta di Händel e l’Arianna a Nasso di Richard Strauss, su libretto di von Hofmannsthal. Thomas Corneille, fratello di Pierre, aveva messo in scena un’Arianna violenta e passionale, in aspro conflitto con la sorella Fedra, che si prende la scena anche nella Fedra di Racine.
Nel Settecento Arianna riceve l’omaggio di pittrici come la classicheggiante Angelika Kauffmann, amica di Goethe; o Elisabeth Vigée-Lebrun, che la ritrae nei panni di Lady Hamilton. Per i preraffaelliti, è la ghiotta icona di un erotismo sofisticato, elegantemente estenuato, come nell’olio di John William Waterhouse (1898). Figlia di Nietzsche è l’idea di Giorgio De Chirico di un abbandono di Arianna che si consuma nello spazio vuoto di una piazza italiana, neoclassica e perfettamente metafisica. Si identifica in lei Elizabeth Browning, moglie del poeta Robert, che aveva sposato contro il volere paterno. Grace Greenwood, prima donna a scrivere su “The Times”, la trasforma in un ardente modello di femminismo rivendicativo.
Anche Marina Cvetaeva opera un transfert autobiografico. Per lei Arianna è una giovane tranquilla che attende il compiersi del suo destino con una sorta di superiore distacco, un po’ più vecchia di Teseo e un po’ troppo condiscendente. Autobiografica è anche l’Ariadne abbandonata di Sylvia Plath che sta già meditando il suicidio, mentre un Gide ironico e un po’ misogino ne fa una figura querula e noiosa, tale da meritare l’abbandono.
Ne I dialoghi con Leucò di Cesare Pavese fa dialogare Arianna con la ninfa Leucotea. L’imminente arrivo di Dioniso è annunciato dall’afrore che sale da un vigneto da cui sale uno stordente “odore rasposo, tra di fico e di pino”.
E il povero Minotauro, pur riabilitato da psicologi del profondo come Jung?
A lui tocca la solidarietà di Pablo Picasso, che lo considerava una sorta di alter ego, e il risarcimento di grandi scrittori. Per la Yourcenar ( Chi non ha il suo Minotauro?) il Labirinto è una sorta di inconscio solcato dai lampi delle premonizioni, e il suo Teseo confessa: “C’è una sola cosa che preferirei all’uccidere il Minotauro: essere il Minotauro”. Nel dramma I Re Julio Cortázar vuole che tra Arianna e il mostro corra un legame intimo e profondo: aiutando Teseo, concorre alla trasformazione del fratellastro in un simbolo che ci riguarda tutti come parte di qualcosa che alberga nelle profondità del nostro io. Jorge Luis Borges ne fa un gigante buono, prigioniero indifeso della sua stessa diversità, condannato alla solitudine in una sterminata vastità di sale e corridoi sempre uguali, in attesa che qualcuno venga a liberarlo con la morte (“Non ci crederai –dirà alla fine Teseo ad Arianna- non si è nemmeno difeso”). Anche per Dürrenmatt la sua è la storia di un essere costretto a non essere, recluso in un gioco crudele di specchi e illusioni. Buon bestione privo di scaltrezze umane, l’unico rapporto che troverà con gli umani sarà solo di inganno e di morte. Meglio la sua presunta bestialità del cinico gioco di seduzione e di potere condotto da quel perfetto politico che è Teseo. Come ci ammonisce Giorgio Ieranò (Eroi. Le grandi saghe della mitologia greca, Sonzogno, pp. 255, Euro 16,00) nel mondo oscuro del mito eroismo è sinonimo di violenza ed eccesso, di furori implacabili e di astuzie omicide”. È forse proprio per questo che lo sentiamo così vicino e famigliare.
“Sette/Corriere della sera”, 13 novembre 2015