Mettere la cultura al centro delle scelte politiche

L’intervento alla cerimonia inaugurale del XXIX Salone del libro di Torino

Nel suo anno più difficile, il Salone  del libro è riuscito a congegnare l’edizione forse più ricca e fin scintillante organizzata sin qui. Un evento quasi miracoloso, che  si può spiegare razionalmente come il risultato degli sforzi convergenti di tanti, perché le partite si vincono e si perdono in squadra. Per questo voglio cominciare con ringraziamenti non formali al team che si è prodigato con la consueta professionalità e dedizione  e che costituisce la miglior garanzia per il futuro. Abbiamo avuto la prova provata di quanti soggetti tengano al Salone in maniera quasi viscerale, perché lo considerano un patrimonio collettivo e irrinunciabile. Non una faccenda locale, torinese o piemontese: un orgoglio nazionale. Parlo degli editori, che con la loro disponibilità e la loro collaborazione più che amichevole, vorrei dire parentale, hanno reso possibile questa edizione, accollandosi costi che in altri tempi non erano stati a loro carico. Sentono il Salone come la loro casa comune, sono i primi a volerci essere. Parlo delle Regioni, e cito per tutte la Puglia, quest’anno ospite d’onore. Di quanti lavorano nel mondo del libro, autori, redattori, traduttori,  bibliotecari, librai, insegnanti, associazioni, enti la cui appassionata partecipazione costituisce la trama nascosta del programma, la sua vera risorsa. Parlo dei media, della Rai, delle grandi testate nazionali come dei fogli minori, che ci seguono come nemmeno il campionato del mondo di calcio.

Di questo apprezzamento così largamente condiviso sono testimonianza l’ingresso nella compagine dei soci fondatori di due ministeri chiave, quali il MIUR e il MIBACT,  di una banca che investe convintamente in cultura come Intesa San Paolo.

È il riconoscimento particolarmente lusinghiero e appagante, per noi, del lungo lavoro che è stato fatto in questi anni per la promozione della lettura, attraverso investimenti cospicui e mirati grazie anche alla lungimirante disponibilità della Compagnia di San Paolo, che ci ha consentito e consente di dedicare ai bambini e ai ragazzi un intero padiglione, il 5°, con un suo programma articolato e ricchissimo. Basti dire che quest’anno ci saranno, tra i tanti, l’astronauta Samantha Cristoforetti e Antoine Leiris, l’uomo che ha saputo dire ai terroristi del Bataclan che gli hanno ucciso la moglie: “Non avrete il mio odio”. E poi tanti altri incontri, laboratori, librerie specializzate, momenti di spettacolo.

Sin dalla prima edizione a gestione pubblica, nel 1999, abbiamo pensato che bisogna partire, dal primo anello della catena, per provare a invertire la corsa al ribasso degli indici di lettura, per ridurre significativamente quella che in un drammatico rapporto di Save the Children, in cui si dice anche che l’abbandono scolastico è ancora al 15%,  viene definita “povertà educativa”. Potrei descrivere il 5° padiglione e l‘intero Lingotto come una fabbrica di lampadine: riescono ad accendere passioni e curiosità intellettuali, a presentare il sapere in forma unitaria, a farlo diventare gioco e divertimento, com’è giusto che sia.

Credo che nell’apprezzamento dei ministeri rientri a giusto titolo anche un format come Adotta uno scrittore, ampiamente testato e collaudato. Una ventina di scrittori che incontrano per tre volte i ragazzi delle superiori del Piemonte per parlare di tutto, con festa finale e collettiva lunedì al Lingotto. Adesso l’abbiamo esportato in un luogo ad alto valore simbolico come Lampedusa, che non ha una libreria e non ha una biblioteca, dove abbiamo inviato uno scrittore come Fabio Stassi, che molto stimiamo. Sarebbe bello poter esportare Adotta uno scrittore nelle altre regioni. Siamo lieti di poter offrire ai ministeri e mettere a frutto ben oltre il Piemonte l’esperienza innovativa che abbiamo maturato in questi anni. Insieme riusciremo a compiere significativi passi in avanti.

Sarà il Salone della visionarietà. Questa voce non gode nei dizionari di una grande considerazione. Viene associata a  vagheggiamenti irrealistici, confusi e sterili. I visionari di solito vengono considerati degli utopisti pasticcioni, destinati a sconfitte già scritte. Di tutt’altra pasta i visionari che abbiamo invitato al Lingotto. Una piccola provocazione, in un Paese che la progettazione nel medio-lungo periodo non ha mai saputo bene cosa fosse. I nostri ospiti sono gente che sta già lavorando concretamente nel futuro prossimo perché capace di guardare più in là, di darsi dei progetti forti basati sulla compenetrazione di cultura umanistica e cultura scientifica, di realizzarli. Cito per tutti Roberto Cingolani, brillante direttore dell’IIT; Guido Tonelli, Carlo Rovelli, Christophe Galfard, giovane fisico francese che ha rivelato straordinarie capacità divulgative; o biologi come Renato Bruni che ci insegnano a carpire dalla natura i segreti dell’innovazione tecnologica che la natura ha già brillantemente risolto prima di noi. Questi scienziati non sono dei gelidi robot che maneggiano strumenti ancora più freddi di loro, come qualcuno pensa, ma esploratori di accesa fantasia, capaci di ipotesi di lavoro che poi certo devono passare alla verifica sperimentale. Ma pensate quale e quanta fantasia occorre per immaginare la meccanica quantistica a loop su cui lavora Rovelli, o per mettere a punto un materiale delle meraviglie come il grafene. Vorremmo riuscire a trasmettere ai nostri visitatori il calore che produce questa appassionata esplorazione tecnico-scientifica di mondi nuovi.

Ci saranno imprenditori 2.0 come Marino Golinelli e Brunello Cucinelli, che mettono cultura e scienza al centro di un nuovo patto tra capitale e lavoro, nel segno di una crescita collettiva. Quando ho letto un’intervista a Golinelli non credevo ai miei occhi. Ecco un imprenditore farmaceutico di successo che investe milioni di euro per creare una fondazione che è un vero laboratorio di creatività e aiuta i giovani a capire che cosa sarà il futuro e a scegliere una loro strada in quel futuro. Un imprenditore che dice di voler scommettere sull’uomo.

Ho scritto su La Stampa che quella che stiamo attraversando è una gravissima crisi di civiltà, che a sua volta è figlia di una ancor più grave crisi culturale. Se ne può uscire non opponendo violenza a violenza o barricandosi in casa, ma ripensando criticamente propria  storia, gli errori commessi, le cose che si dovevano fare e non si sono fatte, e avviando tutti insieme un lavoro culturale lungo, paziente, determinato, che sia frutto di un progetto di ampio respiro.

I primi a dirlo sono proprio gli ospiti internazionali che animano il focus dedicato alle culture arabe, che saluto e ringrazio, insieme a Paola Caridi e Lucia Sorbera che ci hanno guidato nel mondo dell’arabistica contemporanea, a noi praticamente sconosciuto. Questi autori sono gli analisti e i testimoni di drammi, tragedie, conflitti, repressioni, ma anche di mutamenti nascosti sotto la cronaca, e ci ricordano la necessità di tenere aperto il dialogo e accesa la speranza.

Il Salone torinese non documenta soltanto lo stato dell’arte di comparto industriale di qualità europea, che non ha niente da invidiare a nessuno e tiene il campo, malgrado le difficoltà. Attraverso il contributo di tante voci d’ogni Paese è un momento di riflessione e confronto sul dove siamo e dove vogliamo andare. È un modo per riaffermare che la cultura non è qualcosa che riguarda un ristretto manipolo di autori, studiosi e editori, non è un ghetto specialistico e polveroso, querulo e un po’ inconcludente. È una delle grandi priorità nazionali, forse la prima, quella che presiede alla formazione e alla manutenzione di cittadini che hanno da essere consapevoli, informati e criticamente attivi se non vogliono rassegnarsi a un destino neocoloniale, malgrado la grande storia che hanno alle spalle.

Il ministro Franceschini ha giustamente sottolineato le valenze e le potenzialità economiche di un Ministero dei Beni Culturali, che i governi della Repubblica avevano sin qui colpevolmente trascurato, insieme a tante altre cose, come la ricerca scientifica, come se fosse un ministero di serie B. Ma c’è qualcosa di più importante delle ricadute economiche, ed è appunto l’urgenza di rimettere la cultura al centro del progetto Paese. Questo dovrebbe essere il primo e più urgente dei discorsi politici. La scuola, la formazione, il sapere, la ricerca, le biblioteche, ivi comprese quelle scolastiche, che languono senza risorse.

Ogni anno ci accorgiamo che al Lingotto, di qualunque cosa si parli, per qualche giorno si torna a fare politica nel senso più bello e più alto del termine. I lettori-cittadini tornano a sentirsi parte di una polis, di qualcosa che possono sentire loro e li riguarda in prima persona. Provano il piacere della conoscenza, l’allegria di condividere gli stessi interessi. Il vero social network è quello che si realizza qui, tra persone vere, in carne e ossa, che non stanno a smanettare sui loro smart phones che saranno pure smart ma dubito rendano smart gli utenti. Persone che sono disposte all’ascolto vero, alla condivisione e alla discussione, invece che perdersi in sterili soliloqui autoreferenziali, correndo i mortali pericoli dell’autismo digitale.

È di questo network reale che abbiamo bisogno, è questo nuovo inizio che dobbiamo prometterci.

Speriamo di poter uscire di qui un po’ più visionari concreti, un po’ più progettuali, un po’ più capaci di guardare lontano.

 

12 maggio 2016

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