Il lungo e coerente lavoro di Enrico Della Torre incisore non è mai stato per lui uno svago, una deviazione dalla strada principale, men che mai un riempitivo di tempi morti, ma semmai una forma, un momento della medesima strenua ricerca. Lo aveva già osservato anni fa Dante Isella, raffinato intenditore di cose d’arte. Piuttosto, aggiungo, rappresenta la fase cruciale di un procedimento alchemico di distillazione, cioè di trasmutazione della materia. In questa stessa direzione andava l’intuizione di Carlo Bertelli, secondo il quale Enrico Della Torre non opera astrazioni, ma trasfigurazioni, e procede al superamento della vecchia tradizione naturalistica attraverso la “combustione interna di emozioni profonde”.
Una poesia incapace di esibirsi come tale. È la prima cosa che mi viene fatto di pensare di questo lavoro, che si è nutrito per tanta parte di letteratura, e di un dialogo con grandi maestri e spiriti affini: tra i principali, Hölderlin e Italo Calvino in campo letterario, Cézanne e Klee in quello artistico. Ma prima ancora Lucrezio. Quella di Della Torre è un’amorosa discesa nei misteri della materia, insieme elusivi, gaudiosi e perturbanti, alla ricerca dei mattoni primi, degli atomi e del loro clinamen, del loro combinarsi in modi sempre diversi per dare vita allo spettacolo del mondo, così come si offre ai nostri occhi. Lucreziana è l’attenzione di Della Torre per il divenire, lo scorrere, il fluire. Ritroviamo in lui la stessa fascinazione di Klee per il Tempo, che chiamato a diventare parte integrante di un quadro, disvelato com’è da un sistema di linee e di frecce che rimandano al farsi di un perpetuo movimento.
L’artista come geologo, speleologo. L’incisione è anzitutto questo: uno scavo nella materia, apertura di un mondo infero, un gesto che sta tra il rigore di un’anatomia, il rito di passaggio e la profanazione. L’incisione è un disegno che cerca la sua terza dimensione nel profondo, e a quello chiede qualcosa di se stesso. All’inizio del suo percorso Della Torre è attratto dalle linee di forza che attraversano gli oggetti della sua osservazione: fiumi, alberi, foglie, canneti, registrando gli increspamenti che quei segni segreti producono sulla lastra della sua ricettività. Quasi altrettanti elettrocardiogrammi registrati da un pennino di speciale sensibilità. In questi tracciati tutto è nervosamente mobile. Come negli acceleratori del CERN, a Ginevra, l’artista fa scontrare alle altissime velocità della sua percezione le particelle visive, e si dispone a studiare i tracciati che le collisioni producono. Solo così può provare ad arrivare alle strutture ultime, o prime, della Natura, alle ragioni della sua inarrestabile cinesi.
Non esiste la “natura morta”, nelle composizioni di Della Torre. La natura non si lascia fissare in gabbie predefinite, è trasmutazione, mobilità che cancella continuamente le tracce delle proprie epifanie, simile in questo alle onde del mare, tutte diverse tra loro, al punto da imporre all’osservatore una sorta di fascinazione ipnotica, che ritrovo in queste composizioni. Della Torre è un navigante nei mari del cangiante, aperto alle sorprese continue di quel che va scoprendo. Non gli interessa l’approdo, che poi sarebbe la rappresentazione naturalistica, il suo teatrino a buon mercato, i suoi prevedibili effetti, ma il farsi, il divenire del viaggio stesso, gli incontri non programmabili che finiscono per mutare nell’essenza la sensibilità dell’osservatore.
Di Della Torre si è detto che è un “pittore di tensioni”, un temperamento nordico. Non vorrei si scambiasse la freddezza degli strumenti con quella di chi li maneggia. Una cosa assai simile accade nella fisica: lo scienziato è uomo di forte immaginazione, di inventività “calda”, le cui intuizioni e ipotesi sono molto più avanzate e dirompenti di quelle dei letterati, ma devono poi essere passate al vaglio di verifiche sperimentali: loro sì necessariamente “fredde” e rigorose.
Della Torre ha confidato di essere passato, grazie a Cézanne, dallo studio delle superfici a quello delle loro strutture nascoste. Non gli interessa la prospettiva, ma la profondità sepolta. Come nelle radiografie, dove l’individuo non è ridotto a una dialettica di vuoti e di pieni, di bianchi, di neri e di grigi, ma semmai rivelato da quella. Attraverso le sue lastre, Della Torre procede all’individuazione degli spazi geometrici dettati dalle linee di forza, che adesso chiudono o aprono, segnano confini invalicabili o stabiliscono nessi e relazioni, vorrei dire un sistema sociale di spazi che si dispongono alla dialettica, persino all’opposizione e allo scontro, non necessariamente all’equilibrio, che è statico e dunque poco vitale. L’osservazione si fa sintassi, diventa una stratigrafia, si organizza in frammenti di racconto, rimanda a una possibile vicenda evolutiva. Come se una Storia non ancora codificata, intessuta di fratture e di spine, facesse la sua apparizione qui per offrirci le fasi di una vicenda conflittuale. Con gli anni, vediamo comparire misteriosi abitatori delle profondità; il mondo diventa un fondale marino, popolato di creature d’ombra e d’abisso, appena segnate da occhi attoniti, da pupille non abituate a variazioni di luce. Questi occhi embrionali a focale fissa mi hanno ricordato un racconto delle Cosmicomiche di Calvino in cui la materia, in un cruciale passaggio evolutivo, crea l’occhio per osservare ed osservarsi, per arrivare a una migliore conoscenza di sé. Non diversamente Cézanne aveva detto: “La natura si pensa in me”, o attraverso di me. Quella che Della Torre ci consegna è dunque una stenografia di una natura che ausculta se stessa, in un intrecciarsi di tremori, brividi, stupori, trasalimenti, fili danzanti. Se tra immaginazione e la natura non si dà opposizione, ma una sorta di empatia percettiva, possiamo arrivare a concludere che l’artista si propone come uno psicoanalista della natura, dei fantasmi che la popolano e la agitano, non troppo diversi da quelli degli umani. Che siamo di fronte a un reciproco riconoscersi.
Sono queste la ragioni per le quali la poesia di Enrico Della Torre, presa com’è dall’urgenza dei suoi procedimenti conoscitivi, è incapace di esibirsi come tale. Al contrario, appare intrisa di pudore e di riserbo. Una confidenza sommessa, mai asseverativa, dubitosa, quasi esitante, che si offre con discrezione al lettore-osservatore. È il rifiuto del poetichese, dalla maniera, dell’autocompiacimento, dell’oscurità gratuita. Un work in progress che lascia sempre aperta la porta del dubbio, della verifica ulteriore. Non sollecita ambigue complicità emotive. È la proposta di un percorso da condividere, di una semiologia da esercitare insieme. Ho ritrovato in questo compagno di viaggio un pensiero di Primo Levi: “La distinzione tra arte, filosofia, scienza non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein; né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo del conoscibile”.
Saggio introduttivo a
Enrico Della Torre, Catalogo generale
dell’opera grafica
A cura di Sandro Parmiggiani
Skira, 2012