La Prolusione alla serata inaugurale del XXIX Salone del libro
Abbiamo scelto la visionarietà come motivo conduttore del Salone 2016, ma in realtà gli autori – cioè coloro che aumentano, che accrescono, secondo l’etimo latino- sono dei visionari di default: non si accontentano di riprodurre la realtà che hanno sotto gli occhi, ma la trasformano in possibilità, potenzialità, immagini proiettate oltre la dimensione del quotidiano. Qualcosa che riesce ad andare al di là di loro e di noi, che ci invita a metterci alla prova nel vivo di nuovi viaggi, di ininterrotte esplorazioni intellettuali.
In un 2016 fitto di ricorrenze importanti, questa sera vogliamo ricordare almeno tre grandi visionari, che restano tra i fondatori della modernità, come oggi la sentiamo e viviamo. Il 22 aprile 1516 esce a Ferrara la prima edizione dell’Orlando Furioso di Messer Lodovico Ariosto. Diventa rapidamente il primo bestseller della neonata editoria a caratteri mobili e alimenta una copiosa produzione artistica, che arriva fino ai giorni nostri. Con la sua potente carica figurativa, il Furioso è l’antenato del cinema, del fumetto e del fantasy, un’opera multimediale che sa parlare a tutti. Un’opera che dimostra come la fantasia non sia un elemento gassoso che non si sa bene da dove arrivi, ma il frutto paziente di un progetto accuratissimo, di un calcolo combinatorio, di un’architettura rigorosa. Non a caso appassionava tanto Italo Calvino, magistrale architetto delle Città invisibili.
Il secondo maestro di visionarietà è Miguel de Cervantes, il padre del romanzo moderno e di una sensibilità che riconosciamo come nostra proprio nel momento in cui viene negata in tante parti d’Europa e del mondo. Come ha scritto Javier Cercas, con il suo Don Chisciotte Cervantes crea un mondo “radicalmente ironico in cui non esistono verità monolitiche o inamovibili, ma in cui tutte le cose sono verità bifide, ambigue, precarie, poliedriche, cangianti e contraddittorie”. Questo mondo sfuggente è incompatibile con ogni dogmatismo, ogni potere totalitario, ma anche con le rozze semplificazioni di chi vuol ridurre la complessità del mondo a grandi categorie tirte giù con l’accetta: buono/cattivo, bianco/nero, amico/nemico, compaesano/straniero. Cervantes ci dice che non esistono soluzioni semplici e definitive, e che l’unica soluzione è la ricerca interminabile di soluzioni. Che è anche quello che fa – che dovrebbe fare- il romanzo.
Il terzo sommo visionario è William Shakespeare, che per un singolare gioco del destino muore nelle stesse ore di Cervantes nell’aprile di 400 anni fa. Questa sera Massimo Popolizio leggerà sei tra i monologhi più famosi tratti dalle sue opere. Bastano pochi versi a farci capire ancora una volta come Shakespeare sia riuscito nell’impresa di gettare uno scandaglio senza pari negli abissi dell’animo umano. Lo fa attraverso la potenza di parole che sembrano restituite alla loro forza originaria, quasi fossero appena uscite, ancora incandescenti, dal crogiuolo della creazione linguistica.
Così nei suoi drammi possiamo ritrovare il difficile rapporto tra natura e cultura, materia e spirito, innocenza e brutalità; la fascinazione del potere e il suo ripudio, le dinamiche di feroci conflitti famigliari, la pietà e la vendetta, la fedeltà e il tradimento, la fermezza e la malinconia, l’amarezza e il sorriso.
Anche nel fondo di una prigione, Riccardo II scopre che il libero gioco dell’immaginazione consente di vivere molte vite. Amleto, anticipando le scissioni novecentesche scissioni dell’io, riflette sul pensiero che non riesce a tradursi in azione. Prospero duca di Milano, che ha patito l’ingiustizia e l’esilio, rinuncia ai suoi poteri magici e opera una riconciliazione finale nel nome della misericordia. Nel Macbeth un assassino sanguinario costringe noi, spettatori miti ma non innocenti, a riflettere sul senso delle nostre cattive azioni. Riccardo III, il deforme, ci spiega le ragioni della propria consapevole malvagità: è crudele perché infelice, come la Creatura del dottor Frankenstein. Otello sperimenta su di sé l’opposizione tra l’amore e il dovere di una giustizia quasi astratta.
Di una delle sue ultime e più fortunate opere, La Tempesta, è stato detto che sembra una grande conchiglia, che ad accostarla all’orecchio riproduce il mormorio del mare. Questo può essere detto di tutta la grande letteratura. È per questo che siamo qui stasera e ci ritroveremo per cinque giorni al Lingotto, nell’allegria che produce il piacere di condividere gli stessi interessi: per ascoltare la voce degli oceani letterari.
In questo incerto crepuscolo d’Occidente, che dobbiamo cercare di trasformare in un nuovo inizio, abbiamo più che mai bisogno di questa illusione salvifica, che amplia i territori della conoscenza, ci rende umani e ci aiuta a essere anche un po’ visionari. Noi che, come dice il poeta, annunciando le smaterializzazioni digitali dei mondi virtuali, siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni.
Auditorium Rai
Torino, 11 maggio 2016