Alzare lo sguardo e interrogare il cielo

Fresco del premio per la divulgazione culturale ricevuto ad Alassio, Carlo Rovelli con le sue Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi) ha superato le 300.000 copie vendute e continua a veleggiare nelle top-ten dei bestsellers, anche fuori d’Italia. Come sempre, i successi imprevedibili smuovono domande sociologiche. Esistono bravi divulgatori capaci di spiegarci la relatività, i quanti, i buchi neri, il Big Bang. Che cosa ci mette in più Rovelli, al di là della sua mirabile capacità di saper trovare un linguaggio accessibile ma mai banale? Di sicuro le sue passioni per Anassimandro, che per lui è il primo scienziato d’Occidente, per Lucrezio, per la filosofia e la cultura umanistica, che sono parte integrante del suo bagaglio intellettuale. Ma in più ci mette un’attitudine che è solo sua. A quasi sessant’anni, Rovelli ha conservato la freschezza, la semplicità, gli entusiasmi di un ragazzo che si getta tutto intero nell’oggetto delle proprie ricerche, e continua a stupirsi, a emozionarsi. In un mondo rassegnato, sfiduciato, appiattito su un presente senza prospettive né visione, che guarda per terra, lui è uno che guarda il cielo per scavare “nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nel fato dei buchi neri”. È proprio grazie a uomini come lui che, seduti sul bordo del poco che sappiamo, siamo ancora capaci di incantarci di fronte al mistero e alla bellezza del cosmo.

In una poesia del 1974, all’indomani della lettura di un articolo dello “Scientific American” che dava conto delle scoperte sui buchi neri, Primo Levi parlava sconfortato di un cosmo “groviglio di mostri” che aveva perduto il suo ordine antico: “L’universo ci assedia cieco, violento e strano/ Il sereno è cosparso d’orribili soli morti, /Sedimenti densissimi di atomi stritolati”. Concludeva Levi: “E noi tutti seme umano viviamo e moriamo per nulla,/ E i cieli si convolgono perpetuamente invano”. Rovelli guarda lo stesso scenario, ma ne trae sentimenti opposti. Confinati in una galassia marginale tra miliardi di altre galassie, trascurabili detriti di polvere interstellare, facciamo pur sempre parte di questa storia grandiosa, terribile e affascinante. La nostra “dignità di fuscelli pensanti” (Levi) ci trasforma in comprimari la cui grandezza sta nell’essere coscienti della propria pochezza, ma nel continuare stoicamente a cercare di guardare con occhi nuovi, visionari, come fanno appunto i fisici. È questa ritrovata freschezza di sguardo, questa giovanile operosità di ricerca il vero input che Rovelli ci consegna e che è stato perfettamente recepito dai lettori, i quali non a caso escono dalla lettura del suo libro rasserenati, tonificati.

Una domanda: ma è possibile che l’università italiana non sia ancora riuscita a trovare una cattedra per uno come Rovelli, che è tra gli inventori della “gravità quantistica a loop” e sa accendere passioni intellettuali, come devono fare i veri maestri?

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