Il ritorno di Cervo Bianco

In una nuova edizione il romanzo ispirato a una storia vera di quasi cent’anni fa, che svela il vero carattere degli italiani.

 

L’uomo in maschera che ha smascherato gli italiani. Questa in estrema sintesi è la storia di Edgar Laplante, Chief White Elk, il sedicente Capo Cervo Bianco, l’acclamato e munifico «principe» pellerossa che quasi un secolo fa, nell’estate 1924, aveva entusiasmato gli italiani di ogni classe sociale. Mi sono imbattuto nella sua storia visitando tanti anni fa il Museo di antropologia criminale Cesare Lombroso, che ospita la casacca in pelle di daino e il vistoso copricapo piumato del falso indiano: un abito di scena acquistato alle Galeries Lafayette di Parigi, che aveva funzionato benissimo. Salvo rare eccezioni, l’abito fa il monaco. La vicenda mi è subito parsa così esemplare che le sono rimasto affezionato e l’ho addirittura raccontata due volte: una prima nel 1980, con Cervo Bianco (Mondadori); una seconda nel 2001, con il titolo L’anno dell’Indiano (Einaudi). Continua a sembrarmi uno specchio fedele della creduloneria degli italiani (degli uomini) di ieri e di oggi.

Appena arrivato in Italia, il falso indiano si era dichiarato un ardente sostenitore del fascismo, che lo aveva prontamente adottato, riverito e scortato per via delle sue favolose elargizioni ad associazioni, ex combattenti, vedove e orfani di guerra. Era andato persino più in là degli squadristi più facinorosi, come quando in un teatro torinese dove si celebrava la marcia su Roma, aveva estratto un coltello e proclamato che quella era la medicina che ci voleva per gli antifascisti. Quando la maschera era caduta, l’imbarazzo era stato grande. Tramontato il suo astro, aveva occupato la scena quell’altro grande attore e istrione, Benito Mussolini, malgrado le difficoltà politiche suscitate dall’assassinio di Matteotti. Gli italiani avevano creduto anche a lui.

Un “come eravamo” che in realtà è un “come siamo”. Cervo Bianco è un  geniale precursore dell’età delle fake news, delle bufale digitali, dei credibilissimi falsi creati dell’intelligenza artificiale, delle “narrazioni” strumentali, della bugia che, ripetuta, diventa verità. Facile immaginarlo ospite al Festival di Sanremo, presente in tutti i talks televisivi, persino deputato o almeno sindaco di qualche cittadina in cerca di rilancio. Attore, cantante e performer, era arrivato a Nizza con una tribù di veri indiani Arapaho che accompagnavano con spettacolini promozionali la proiezione di un film western. Raccoglieva fondi per i piccoli indiani poveri, che naturalmente teneva per sé. Aveva incantato due nobildonne austriache di altissimo lignaggio, madre e figlia, che l’avevano invitato in una loro villa nei pressi di Trieste. Diceva d’essere venuto in Europa per perorare la causa degli indiani alla Società delle Nazioni, e vantava ingenti crediti per diritti petroliferi che si sarebbero presto sbloccati. Su questa base, le gentildonne gli avevano elargito a più riprese cifre folli, equivalenti a tre volte lo stipendio del presidente americano, e a un milione di euro di oggi, che lui aveva speso in un trionfale giro d’Italia per inverare il personaggio del principe munifico e generoso, che beneficava tutti. Era quasi riuscito a farsi ricevere da Mussolini e dal Papa. Alla fine di un’estate folle, lo smascheramento, la fuga di Svizzera, il processo a Torino (seguito con grande rilievo da “La Stampa”), la condanna a cinque anni di carcere. Alle Nuove aveva incontrato il giovane antifascista Massimo Mila. Con lui s’era lamentato d’essere stato messo tra i delinquenti comuni, e non tra i politici. Fino all’ultimo, restava fedele alla propria parte.

Che cosa aveva combinato Cervo Bianco prima di venire in Europa? Ora che il mio romanzo torna in libreria, l’ho munito di una nota che ricostruisce la sua resistibile ascesa sulla base di una recente biografia dell’inglese Paul Willets, King Con Ritorna in u(“imbroglione”, nel colloquiale americano) e delle ricerche del triestino Beppe Leonetti, ancora inedite. Laplante è luomo delle identità multiple. Nato nel 1888 a Rhode Island da un padre canadese che aveva sposato una nativa americana, nel 1917 incomincia a predicare nelle chiese battiste spacciandosi per un eroe di guerra e sostenitore dei diritti degli indiani conculcati. Sorriso accattivante, buona voce baritonale, comincia lavorare nel vaudeville e sa improvvisare. Legge i giornali e arricchisce di particolari autentici i personaggi che spaccia per veri: è un nativo campione di maratona alle Olimpiadi, un capo Cherokee, un conferenziere che invita gli indiani a combattere per la patria e vende i Liberty bonds per finanziare la guerra, un eroico soldato ferito a Verdun, un dottore in medicina, un attore che dice di aver lavorato con Rodolfo Valentino. Sposa una nativa protofemminista, lavora con lei in apprezzati spettacoli di varietà e continua a raccogliere fondi per le buone cause.

Inseguito dalla polizia, che non riesce a incastrarlo, dipendente da alcol e morfina, bisessuale, fugge in Europa dove dichiara di voler incontrare il principe di Galles. Miete nuovi successi in Inghilterra, Belgio e Francia, dove i suoi canti e danze Cherokee sono molto apprezzati: incanta le signore, visita ospedali, rende omaggio alle tombe del Milite Ignoto, colleziona cittadinanze onorarie. Sempre in fuga perché non paga i debiti, punta su Nizza, terra di redditieri in vacanza, e non sbaglia. Tornato in patria nel 1929, dopo la prigionia, continuerà a campare del suo vecchio mestiere di Zelig degli sciocchi  Morirà in Arizona nel 1943, a 55 anni.

Non meno strabiliante, ma di tenore opposto, la storia delle sue aristocratiche protettrici. La sessantenne contessa madre Melania, di origini ungheresi, aveva sposato un Khevenhüller: principi dell’impero dal 1763, e proprietari di uno spettacolare castello in Carinzia, tuttora grande attrazione turistica. Passava gli inverni in Costa Azzurra, era assidua del Casinò, spericolata e valentissima guidatrice  che al volante di una Mercedes Kompass aveva vinto numerose gare e sconfitto Ferdinand Porsche. Ancora oggi si organizza in suo onore un rally di auto storiche. Che cosa può averla indotta a cadere ingenuamente in una simulazione così smaccata? Tocca al romanzo, che per statuto deve gettare sonde nelle ombre, azzardare qualche spiegazione, al di là della cronaca e della Storia.

“La Stampa/Tuttolibri”, 10 giugno 2023

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