I racconti di Antonio Franchini. Quando il lottatore è un discendente di Montaigne

Dal suo esordio con Camerati (1991, quattro novelle sul crescere insieme), passando per Quando vi ucciderete maestro? (1996, sul linguaggio stilizzato delle arti marziali), Acqua sudore ghiaccio (1998, storie di fiumi, montagne e palestre), L’abusivo (2001, è il giornalista precario Giancarlo Siani assassinato dalla camorra), Cronaca della fine (2003, dedicato a un personaggio “eccessivo” quale lo scrittore Dante Virgili), Gladiatori (2006, discesa nel mondo semi-infero delle arti marziali), Signore delle lacrime (2010, un viaggio in India sulle tracce di Siva, l’ambiguo dio distruttore e rigeneratore), Antonio Franchini (nato a Napoli nel 1958, milanese dagli anni ’80, apprezzatissimo dirigente editoriale, a lungo in Mondadori – dove ha scoperto, tra i tanti, Paolo Giordano e Alessandro Piperno-, adesso nel Gruppo Giunti) non ha sbagliato un colpo e oggi, con questo Il vecchio lottatore conferma quello che pensiamo in molti: essere lui uno dei pochi scrittori italiani che ci sono davvero “necessari” (NN editore, pag. 254, euro 17,00).

Al contrario di tanti colleghi, tiene un profilo basso, non ama comparire (non a caso il suo alter ego si chiama Francesco Esente: sta defilato come il Barone Rampante, ma con occhi bene aperti e sensi spalancati). Una questione di stile, quella stessa che agita sino a una sorta di raptus ascetico i suoi personaggi, che appartengono a un “giro” assai poco frequentato in letteratura: cultori di arti marziali, lottatori, pugili, canoisti, scalatori, toreri, pescatori che si immergono nelle acque gelide del Tagliamento alla ricerca di trote rare.

Franchini ha avuto modo di frequentarli e di raccoglierne le storie (tutte tenute sui registri di un’epica sommessa e malinconica) perché pratica le loro stesse discipline. Spesso sono vecchi leoni sul viale del tramonto, hidalgo dignitosi che si intignano a sfidare se stessi. “Attratti dalle sfide estreme e atterrati dalle inezie”, pensano che una sconfitta applaudita sia più bella di una vittoria. Se per una volta hanno raggiunto l’eleganza del gesto assoluto, subito cominciano a rimpiangerla come se non fosse più ripetibile. Non incarnano un’idea di furore o di rozza brutalità, ma di un equilibro faticosamente perseguito e raggiunto. Il loro occhio non deve avere lo “sguardo della tigre”, ma quello fisso e come spogliato di emozioni della gallina. Non sono talenti naturali, lottano in primo luogo con le loro imperfezioni, che  ribaltano con la fatica e il sudore, convinti -come Franchini- che siano il migliore dei fattori di crescita, di quelli che possono dare equilibrio e senso alla vita.

Non si dà nessuna opposizione tra letteratura e combattimento. Sono entrambi spazi chiusi e obbediscono alle stesse regole: l’esplorazione di sé, l’affinamento delle tecniche, la ricerca del gesto o della parola giusta, l’eleganza delle scelte. Campioni e scrittori si diventa più per dedizione che per talento, grazie a un esercizio quotidiano svolto con rigore intransigente. Lo stile non è nemmeno un fatto estetico: “È stare bene dentro un mondo, ma anche non starci dentro fino in fondo, è stare in un altrove irraggiungibile, in qualcosa che vedi ma non tocchi, che sogni ma non trovi, e ti lascia dentro quella malinconia che non toglie la luce dal tuo sguardo, ma lo vela”.

I sette racconti che compongono il libro sarebbero, si legge in copertina, “postemingueiani”, ma è anche questo un garbato understatement, perché Franchini, cultore di una perplessità metafisica, non è un epigono sia pure talentuoso, né condivide l’io ipertrofico, esibizionistico e bulimico del vecchio Ernest (cui rimanda un dialogo irresistibile, degno di Billy Wilder, tra Fernanda Pivano, accreditata – a torto- di esserglisi concessa e il marito Ettore Sottsass, riconoscibilissimi anche se non nominati).

Radicalmente diverso è l’approccio alla pratica sportiva e a quel che se ne può ricavare, più articolata e pensosa la scrittura. Franchini sembra piuttosto un colto e disincantato discendente di Montaigne che invece di starsene rinchiuso nella sua torre discende i fiumi in canoa schivando mulinelli mortali o frequenta palestre alla One Million Dollar Baby, auscultandole tra empatia e distacco. Da lì scattano riflessioni appuntate in brevi incisi sentenziosi che ricordano quelli di uno scrittore da lui molto amato, Giuseppe Pontiggia.

Le verità senza appello che il corpo, ben temperato dallo stile, detta perentoriamente, toccano di rimbalzo i grandi temi dell’amicizia virile, del Tempo che velando rivela, della vecchiaia che incalza, della morte, ma non hanno niente di luttuoso o deprimente. Al contrario, il misurarsi con la morte come un avversario invincibile contro il quale, proprio perché tale, si può dimostrare il proprio valore, offre al lettore un forte arricchimento del senso vitale e della bellezza, cui il confronto con la finitudine conferisce un maggior risalto. I lottatori, i rocciatori, i canoisti, i vecchi campioni di Franchini, “anime grandi e inquiete” che siamo soliti guadare con un po’ di sufficienza come bravi selvaggi, sono i portatori di un codice di stoica fermezza di cui avevamo smarrito la pregnanza: “In fondo la vera poesia non fa che questo, rivelarci all’improvviso quant’è intenso il paesaggio più squallido e il mondo più ovvio”.

 

“Il Sole24Ore”, 9 novembre 2020

 

 

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