Estratto della prolusione tenuta l’11 giugno in occasione del conferimento del Premio “I Murazzi” alla carriera.
(…) Questo riconoscimento mi è di conforto anche perché di fronte alla crisi di civiltà che stiamo vivendo uno è portato a chiedersi dove, sia pure per la sua piccolissima parte, ha sbagliato o non ha fatto abbastanza. Ma forse non tutto è perduto. Forse dobbiamo continuare a fare quello che raccomanda Calvino in una celebre pagina delle Città invisibili. L’inferno non è qualcosa che verrà, esiste qui e ora, ma noi dobbiamo “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. È questa la nostra etica minimalista, stoica, la linea di resistenza su cui attestarci.
Per diagnosticare questa crisi di civiltà in cui siamo precipitati non c’è nulla di meglio che analizzare l’uso che facciamo del linguaggio. Quasi quarant’anni fa, lo stesso Calvino scriveva nelle Lezioni americane: “A volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola: una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.
Proseguiva Calvino: “Non mi interessa qui chiedermi le origini di quest’epidemia…Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare gli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio”. Osservava ancora: questa pestilenza colpisce anche le immagini che ci vengono propinate a ritmi vertiginosi, tanto prive di una loro necessità interna che si sfarinano in una fantasmagoria che si dissolve immediatamente, come i sogni. E concludeva: “Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo, nel suo ridursi a qualcosa di casuale, confuso, senza principio né fine”.
Da allora, la pestilenza che il dottor Calvino aveva identificato sui vetrini del suo microscopio è dilagata in una maniera impressionante, è diventata devastante, non ha risparmiato nessuno. Altro che il covid. Mai nella storia della civiltà è stato fatto e si fa ogni giorno un uso così sciatto, volgare, cinico, truffaldino e in definitiva spregiativo del linguaggio, ridotto a pochi lemmi svuotati di autenticità, abbrutiti dal turpiloquio, usati per le furberie di una sorta di gigantesco marketing di massa che mira a ingannare milioni di creduloni, al confronto dei quali il Pinocchio raggirato dal Gatto e dalla Volpe sembra un fine intellettuale che ha studiato alla Normale di Pisa.
È questa la vera pandemia. Murati nell’eterno presente dei social, ci stiamo rassegnando a vivere malamente nei nostri stessi escrementi linguistici. Se escrementi vi sembra una parola un po’ troppo forte, possiamo parlare di detriti, di uno sfasciume da discarica, ma il senso non cambia molto. Quello che abbiamo sotto di occhi è un degrado generalizzato, un appiattimento verso il basso, fatto di ignoranza, conformismo di massa, frustrazione che diventa violenza fisica e verbale: un’omologazione che sta trasformando milioni di persone in altrettanti sudditi del nulla.
L’antidoto resta quello indicato da Calvino con lucida amarezza: la letteratura che non rinuncia a cercare, a mappare terre ancora incognite, a sperimentare le infinite combinazioni che si possono dare tra le parole e con le parole per accendere le scintille che possono ancora dirci qualcosa sull’uomo, sulla sua storia, sul suo destino, sugli abissi che nasconde dentro di sé.
Solo la letteratura può darci lo scatto che ci manca, farci fare quel passo in più, scrollarci di dosso la rassegnazione e il torpore. Perché anche se non gode di uno statuto di attendibilità scientifica, resta un indispensabile strumento di conoscenza, capace di dare un senso alle cose ordinandole in un racconto, di costruire ponti tibetani sospesi sull’abisso, di arrivare là dove le immagini si fermano come belle statuine.
Perché questo è il suo felice paradosso: l’utilità di quello che sembra inutile, le lettere, l’arte, la musica, le attività creative, insomma tutto quello che non sembra avere immediati scopi produttivi o utilitaristici, pratici e immediati, eppure riesce a cambiare la nostra percezione del mondo, e di noi stessi. La domanda dei non addetti ai lavori che aleggia nell’aria è sempre la stessa: a che cosa serve la poesia?
Un poeta valtellinese che aveva un’anima greca e mi era molto caro, Grytzko Mascioni, scomparso una ventina d’anni fa, lo ha detto benissimo: la poesia serve a dare un senso all’esistenza degli uomini, a creare un legame tra chi viene prima e chi viene dopo, a creare un patrimonio di incanto condiviso, a conquistare qualcosa che vada oltre il breve giro della nostra esistenza. Un dono divino che riesce a fare del dolore una gioia, a trasformare la negatività nel gioiello fragile e tuttavia indistruttibile che è una poesia.
È di Mascioni una definizione della poesia che mi è rimasta impressa: “Un di più dell’umano che sconfina nella chiarìa del divino”. Che cosa è questa chiarìa? Lo spiega lui stesso in una sua poesia, Il cervo restò cervo, quando
accosta la bellezza a uno
stupefatto respiro che di luce
mite rischiara la pazienza accorta
di chi l’attese, cauto, e si contenta
di quel lume fugace,
della sua avara, immacolata pace.
La vera letteratura è quella che, sin dai tempi di Omero, riesce ad andare al di là delle frontiere conosciute. Ci solleva oltre una realtà specifica per proporcene un’altra, diversa e più veritiera, anzi, la sola veritiera; ci propone altre possibilità di pensiero, altre maniere di utilizzare il linguaggio. Non copia, non fotografa la realtà, la reinventa. La letteratura deve essere ribelle piuttosto che servile, sradicata piuttosto che integrata, nomade piuttosto che sedentaria, audace piuttosto che risparmiatrice, universale piuttosto che tribale. Deve offrire una insicurezza salutare. La sua esistenza è giustificabile solo se riesce ad essere generosa, a darsi senza risparmio, a mettersi in gioco. A metterci la faccia.
L’uomo è l’unico animale che non può vivere senza racconti, cioè senza produrre e consumare continuamente creazioni mentali sue o di altri, invenzioni, fantasie. Elabora racconti persino quando dorme in quelle libere fiction gestite all’insaputa dell’io cosciente che sono i sogni, di cui è più spettatore che regista.
Ho sperimentato la necessità del racconto sui miei nipotini. Quando la loro nonna li riaccompagna a casa la sera, deve raccontare gli avvenimenti della giornata, i giochi fatti, gli incontri e quant’altro, come un racconto fiabesco, con animali e oggetti parlanti e tutta l’attrezzeria delle fiabe. Solo a quel punto la giornata acquista un senso, diventa leggibile. Perché è diventata letteratura. Come ha scritto Lalla Romano, “solo ciò che è raccontato vive”. Il racconto crea la comunità.
Oggi si tende a produrre opere facilmente riconoscibili, rassicuranti, che comunicano un senso di familiarità protettiva. Quando il mondo ci sembrava più solido, cercavamo l’ignoto, la sfida. Oggi che siamo confusi e spaventati cerchiamo la rassicurazione, la continuità. Abbiamo bisogno della sicurezza che offre il branco perché non sappiamo più stare da soli. Vogliamo nuove conferme di quello che sappiamo già. Le nostre modeste, rassegnate esigenze vanno in un senso contrario a quello che ci propone la letteratura, che non è fatta per lasciarci in pace o per aiutarci a digerire meglio, ma per metterci in agitazione.
Un libro vive ed è vivo solo in quanto ci modifica, solo se, dopo averlo letto, noi non siamo più quelli di prima, se la nostra percezione di noi stessi e del mondo è cambiata, come diceva Giulio Einaudi. Questo ovviamente riguarda anche l’autore. Diceva Calvino: io non scrivo per cambiare il mondo. Scrivo per cambiare me stesso.
L’ augurio che possiamo fare agli autori come ai lettori è quello di ritrovare il gusto della sfida, di lasciare la sicurezza dei porti per rimettersi in mare. Dobbiamo deciderci ad affrontare nuovamente le burrasche, come Ulisse, per arrivare alle terre che ancora non conosciamo, e che ci riveleranno finalmente a noi stessi. Per tornare un po’ più consapevoli al punto da cui eravamo partiti. Per cercare di mettere fine alla pestilenza.
Torino, 11 giugno 2022