Ho raccolto in Album di famiglia (Einaudi) i ritratti di alcuni tra i grandi protagonisti della cultura italiana del Novecento, colti dal vivo nella loro quotidianità. Tra gli altri, editori come Einaudi, Garzanti, Inge Feltrinelli, Roberto Calasso, Elvira ed Enzo Sellerio. Padri nobili come Pavese, Montale, Bobbio, Mila, Foa, Revelli e Rigoni Stern. Signore di ferro come Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Lalla Romano, Chichita Calvino. Maghi e funamboli come Gianni Rodari, Bruno Munari, Fruttero & Lucentini, il fisico Tullio Regge, Guido Ceronetti. Inquieti come Parise, Del Buono, Sciascia, Consolo, Celati. Vittime di destini crudeli, come Fenoglio, Atzeni, Del Giudice. Mattatori come Guttuso, Pasolini, Garboli, Eco. In apertura, due autori a cui mi sento particolarmente vicino, Italo Calvino e Primo Levi.
Qui sotto le pagine introduttive, intitolate Custodire il fuoco.
Ho scritto molto su di loro. Necrologi da buttar giú in due ore; ricordi e ritratti quando scattano gli anniversari, dieci, venti, trent’anni dalla scomparsa; relazioni a convegni e festival, introduzioni, interviste, recensioni; le pagine dei Migliori anni della nostra vita. Ho scritto di maestri, padri e fratelli elettivi, amici, compagni di lavoro e di viaggio. I tanti che avevo avuto il privilegio di incontrare entrando nella casa editrice Einaudi nel 1963, e poi in altre ancora. Lavorando con loro, imparando da loro. Sono diventati parenti stretti, presenze vive con cui dialogare.
La distanza nasconde, sfuma o aiuta a vedere meglio? La memoria riscrive continuamente i ricordi, abbellisce, reinventa: si comporta da scrittore, non da storico. Bisogna stare attenti a non fossilizzarli in cliché di maniera. Che poi sono quelli che hanno maggior fortuna, perché si trasformano in piccoli miti portatili, semplificazioni giornalistiche, battute televisive, frasi fatte, addirittura verità storiche che poi è impossibile disincrostare.
Ho riaperto le grosse scatole dei ritagli, dei dattiloscritti, delle lettere e delle cartoline (che meraviglia era lo scriversi a penna, i colori degli inchiostri, la grana delle carte!) Lí dentro si sono depositati in disordine i pezzi di quello che è finito per diventare un romanzo famigliare. Storie intrecciate di una famiglia ramificata, bizzarra, sorprendente, eccessiva, dispersa, perfino conflittuale, come tutte, ma straordinaria, coesa nelle stesse passioni, nello stesso sentire. Capace di pensarsi in termini di comunità, sull’Altipiano di Rigoni come nella Racalmuto di Sciascia, con la stessa idea del libro come ragione di vita. Della letteratura come viaggio di conoscenza. Dove, malgrado le diversità dei caratteri e degli stili, non c’erano conflitti generazionali: i vecchi venivano ammirati e rispettati, i giovani erano cercati, inseguiti, valorizzati. Tutti producevano quell’allegria del fare insieme che trasforma il lavoro in passione, divertimento, gioco, gratificazione. Abbiamo lavorato tanto, ma nessuno ha mai pensato al labor latino, al senso di fatica, pena, sforzo, sofferenza che si ritrova nel francese travail, nello spagnolo trabajo, nel tedesco Arbeit. Il lavoro era crescita personale e collettiva, scoperta di mondi sconosciuti, libertà. Guardando a un futuro che sapeva essere troppo breve per lui, nei suoi ultimi anni a Goffredo Parise sembrava doveroso «disinfestarsi dalla polvere della Storia». Ma se i granelli di quella polvere fossero semi sempre pronti a germogliare, come il grano ritrovato nelle tombe dei faraoni? Come diceva Gustav Mahler, «la tradizione non è l’adorazione delle ceneri, ma la custodia del fuoco».
Ho provato a raggruppare i ritratti secondo affinità piú o meno evidenti, o soltanto immaginarie. È una sistemazione di comodo, perché nelle famiglie alla fine tutto si tiene, il passato e il presente, il lontano e il vicino, le ovvietà e le stranezze. Ogni storia è fatta di tante storie contigue, l’effetto finale è quello di una rete, dove anche la solitudine, habitat naturale dello scrittore, diventa nodo, e la singola voce fa parte di un coro. Il romanzo famigliare non ha un finale. È il romanzo che ogni generazione è chiamata a riscrivere. Nella grande casa di famiglia anche la tua piccola esistenza può acquistare un senso.
Hanno scritto:
Bellissimo. Una lettura appassionante.
Dario Franceschini
Bisognerebbe limitarsi a dire: leggetelo e stop. Ci sono libri così, per i quali ogni commento rischia non solo di essere superfluo ma di guastarli.
Paolo Di Stefano, “Corriere della sera”
Un libro che non conosce momenti di opacità, sempre ispirato, illuminante e divertente.
Alfonso Berardinelli, “Il Foglio”
Ogni pagina riattiva come un bagliore, è un lampo di luce chiara -e calda- sui volti di questi umani non convenzionali.
Paolo Di Paolo, “La Stampa”
Ritratti perfettamente a fuoco, come fotografati con una Laica interiore.
Gian Arturo Ferrari
È anche un libro molto divertente, con molti aneddoti, pieno di cose che non sapevamo.
Giorgio Ficara
Un teatro della memoria, uno sfogliare l’album di una famiglia allargata. Famiglia straordinaria, perché Ferrero ha occupato luogo idi osservazione privilegiati.
Piero Bianucci, “La Stampa”
Un libro poetico. l’Album non è il museo di Reims, è un ambiente pieno di stanze luminose di magnifici quadri.
Davide D’Alessandro, “Huffington Post”
Questi ritratti dal vivo si costituiscono naturalmente come moicrobiogafie e monografie critiche, esercizi d’ammirazione ed elegie del commiato.
Massimo Onofri, “Avvenire”
Un volume godibile come pochi, per la vivacità delle descrizioni, la chiarezza dei ricordi, la sobria eleganza della scrittura.
Mario Barenghi, “Doppiozero”
Ferrero aiuta a ricostruire i perché di una stagione forse irripetibile, osservata dal di dentro e senza i fronzoli della retorica.
Giuseppe Lupo, “Doppiozero”
Il libro affascina sopratutto per la seduzione narrativa. Cattura anche il lettore profano.
Gianandrea Piccioli, “Volerelaluna”