Che gli usi alimentari delle società umane abbiano molto da raccontare agli storici è una consapevolezza che si è consolidata anche in Italia, a partire dalle innovative ricerche della scuola degli Annales francesi, con il saggio di Emilio Faccioli sulla cucina nel volume di Documenti della Storia d’Italia Einaudi (1973), gli studi geniali di Piero Camporesi (tra cui la curatela della Scienza in cucina dell’Artusi, Il paese della fame, Il pane selvaggio, Il brodo indiano), poi con le opere storiografiche di Massimo Montanari. Ci forniscono abbondanti informazioni anche le fiabe, come specchio fedele di società contadine che per secoli sono sembrate come stilizzate in una fissità fuori del tempo e della storia, impegnate com’erano nella quotidiana battaglia della sopravvivenza.
Bianca Lazzaro cura da molti anni per l’editore Donzelli una benemerita collana che ripropone i classici della fiaba internazionale, spesso dati nelle edizioni originarie. Vi spiccano la monumentale edizione delle Fiabe, novelle e racconti popolari del Pitrè, per la prima volta tradotte dal siciliano dalla stessa Lazzaro (2013); le fiabe calabresi di Luigi Di Francia (2015) e quelle del siciliano Capuana, che non lavorava su materiali popolari, ma inventava felicemente fiabe moderne che avevano la coloritura dell’antico (2015).
Forte della sua esperienza, la Lazzaro ci consegna ora un Mangiafiabe in cui ha raccolto una sostanziosa selezione di fiabe della tradizione regionale in cui il cibo gioca un ruolo significativo, traducendole in un italiano moderno attento ai ritmi e ai modi dell’oralità (con la sola eccezione di Capuana e di Emma Perodi, autori di fine Ottocento). Tra gli autori più rappresentati, oltre al grande Pitrè, il cinquecentesco Straparola e e il seicentesco Basile, il pistoiese Gherardo Nerucci, il napoletano Vittorio Imbriani, il pisano Alessandro D’Ancona, l’aretino Francesco Corazzini, il romano Domenico Comparetti. Tutti in vario modo filologi, storici e patrioti fortemente interessati alle culture popolari.
Se le fiabe sono per lo più il teatro dei poveri il cui palcoscenico era il focolare o la stalla, il vero motore di ogni intreccio resta la fame. Il cibo, a partire dal pane, compare come ossessione tormentosa, sogno proibito, simbolo di affermazione sociale. Le sofferenze della fame hanno il potere di scatenare l’immaginazione, di produrre paradisi che restano mentali, ma rendono meno dura la privazione. È l’istinto di sopravvivenza che spinge gli avventurosi eroi della fiaba, condannati all’happy end, fuori dalle loro tane precarie per cercare un destino migliore, che fatalmente si misura con la quantità dei beni alimentari che arrivano a conquistarsi, magari con l’aiuto di entità benefiche.
Quella delle fiabe è una società del baratto, dove corrono poche monete. Il massimo della ricchezza può essere quello vantato da un mercante del Basile: galline, un maiale, molti piccioni, barili pieni di grano, giare d’olio, pignatte di sugna e pezzi di lardo. In queste pagine si lavorano a lungo le farine come in un solenne rito cerimoniale. Ore di passaggi al setaccio, di pasta stesa un po’ dappertutto, per produrre pizzelle, ciambelle, sfogliatelle, zeppole, pettole e buccellati all’anice. C’è anche chi, come la figlia di re Pepe, si vuole impastare un marito con un quintale di farina e uno di zucchero, ma dopo sei mesi d’impasto rimane insoddisfatta del risultato. O c’è chi, come la Giovanna, astuta figlia di un contadino, per sfuggire a una vendetta confeziona una pupa di pasta che mette al suo posto nel letto. La carne non rientra nemmeno nei sogni. Le lepri, i polli arrosto, i salsicciotti, i rarissimi gamberi restano privilegi reali per occasioni speciali. In compenso i decotti d’orzo guariscono da ogni male.
Gode di autentici poteri rigeneranti il latte (usato da una regina anche per innaffiare il rosmarino), le ricotte propiziano il coraggio, formaggi e legumi (le ambitissime fave, ceci e fagioli) rappresentano altrettante apparizioni salvifiche; mele, pere e ciliegie sono avvolte da un’aura portentosa. Le annate sono scarse, e bisogna difendere con le armi anche un orto di cavoli. Nocciole, mandorle, noci e castagne sono spesso oggetti fatati. Il maggior numero di occorrenze se lo guadagnano i fichi, benedetti anche dalle credenze popolari: avrebbero nascosto Maria in fuga, e lei in premio avrebbe dato loro la dolcezza del miele. Ci vengono offerti nelle più svariate qualità, spesso in accoppiata con l’uva passa, mix ottimo per l’ingrassamento forzato cui gli orchi sottopongono le loro vittime.
Quella che si dà con i prodotti della terra è una sorta di confidenza originaria, una fraternità che accorcia le differenze sociali. Non a caso i protagonisti si chiamano Prezzemolina, Zuccaccia, Cecina, Rosmarina. Non ci sono borghesi, nelle fiabe: i popolani interagiscono direttamente con i re, trovano nei cibi più poveri un linguaggio comune. Fuori da ogni realtà storica, le fiabe sono il regno dove, grazie anche a cibi fatati, si realizza una meritocrazia astuta e ruspante, alla Bertoldo. Solo nei novellatori colti di fine Ottocento compaiono le tavole imbandite, i menu elaborati, le cene strutturate, come quelle proposte dalla fiorentina Emma Perodi, che sembrano ispirate alla celebre abboffata dell’Osteria del Gambero Rosso in Pinocchio.
Nelle fiabe, spesso farcite di crudeltà assurde, violenze famigliari, particolari splatter, beffe ai danni di preti troppo avidi, non c’è mai una morale esplicita, se non quella che, finito il racconto, al novellatore e ai suoi ascoltatori resta la fame. Ma vi si può imparare che il dono disinteressato di cibo spinge a comportamenti sorprendentemente virtuosi anche i draghi, gli orchi e le streghe. Chi non sa dare agli altri è condannato a una perpetua carestia, a un’eterna guerriglia civile.
Le pratiche alimentari possono ispirare ai folcloristi e ai novellatori immagini saporite, metafore incisive. Qui il vecchio Basile del Cunto de li cunti vince a mani basse: “Andò ruminando le bellezze di Marziella con le mascelle della memoria”.
“Il Sole 24 ore”, 9 ottobre 2022