Cesare Pavese editore

Il libro di Gian Carlo Ferretti su uno dei grandi (e meno noti) protagonisti dell’editoria del ‘900

“Sono lieto che tu aderisca ad asservirti completamente alla casa editrice Einaudi”. Sono le parole con cui il 1 maggio 1938 Giulio Einaudi accompagna la lettera di assunzione di Cesare Pavese. Scherzosamente, ma non poi tanto, perché usava quel tono per dire le sue verità. “Impiegato di concetto di prima categoria”, per 1000 lire al mese deve tradurre dall’inglese 2000 pagine l’anno, rivedere bozze e manoscritti di traduzioni altrui e di opere storico-letterarie, valutare testi inediti. In gioventù sognava di andare in America, a Parigi, di imbarcarsi su un veliero da carico per un viaggio nel Mediterraneo, di scrivere sceneggiature cinematografiche per la Lux. Invece aveva campato di supplenze e di traduzioni: Sinclair Lewis, Herman Melville, Sherwood Anderson, Faulkner, Steinbeck. Al figlio del senatore Einaudi lo aveva segnalato il grande amico Leone Ginzburg. Aveva visto giusto: il nuovo acquisto era il massimo che un editore poteva augurarsi: un tuttofare di altissima qualità, devoto all’etica del fare.

“Lavoro come uno schiavo egizio”, sospirerà un anno dopo il neo-assunto, ma è una civetteria, non un lamento. Ha una capacità di lavoro mostruosa, non gli si conoscono distrazioni, vive amori infelici che lo spingono a cercare un sollievo proprio in quella forsennata attività monacale, campa di poco, vive da sua sorella, in via Lamarmora. Delle molte facce che compongono il poliedro Pavese, quella dell’editore è la meno nota ma forse quella che brilla di luce più intensa. Bene ha fatto Gian Carlo Ferretti, tra i più apprezzati storici della nostra editoria, a sistematizzare le ricerche condotte fin qui e a completarle con nuovi scavi archivistici, sino ad offrirci un ritratto esauriente che è anche una foto di gruppo degli einaudiani (L’editore Cesare Pavese, Einaudi, pp.  220, Euro 22,00).

Quando nel 1940 Ginzburg viene confinato in Abruzzo, il trentaduenne redattore si ritrova in prima linea e dà subito prova di capacità organizzative. Nel ’41 apre e gestisce la nuova sede romana, l’anno dopo affronta l’emergenza dei bombardamenti e vari traslochi di uffici e magazzini. È al centro di una fitta rete di relazioni con autori e collaboratori, da Mila ad Alicata, Muscetta, Giolitti e Pintor. Concentra in una sola persona una quantità di competenze: valuta testi, cerca nuovi collaboratori, orchestra collane, assegna traduzioni e curatele, stende contratti, tiene rapporti con le agenzie letterarie, si occupa di iniziative promozionali. Passa il giorno di Natale a smaltire bozze. Non gli piace apparire, alle assemblee preferisce i contatti diretti. Ruvido, scontroso, ma anche arguto, sarcastico, umorale, sempre diretto, il burbero benefico è capace di sfottò affettuosi, di autoritratti caricaturali. Uno stile che spiazza e conquista.

Se ne trovano tracce nelle lettere e nelle schede editoriali. Sibilla Aleramo offre delle prose già uscite da Mondadori? “”Non è nostra abitudine usare la donna d’altri (di Mondadori)”. Di un saggista francese che va per la maggiore:  “Troppo bellino, troppo balletto-di -ragazze-in camicia-nei prati”. All’illustre arabista Francesco Gabrieli, che deve rivedere la prima versione integrale delle Mille e una notte: “Notiamo che la sua revisione è imprecisa:  l’uniformità delle grafie lascia molto a desiderare… Noi garantiamo la correzione tipografica; lei ci garantisca quella filologica”. A un tizio che vuole spedire un manoscritto: “Caro signore, ricevendo noi molte proposte, abbiamo dovuto sviluppare un sesto senso, e così fiutare l’ingegno e le capacità di uno scrittore dal suo tono epistolare. Il suo ci pare non prometta nulla di buono. Per ciò non dia corso all’invio dei manoscritti.”

Non si nega arrabbiature e cattiverie, ma i rapporti con l’editore e la tribù restano sempre camerateschi. Per lui gli aspetti artigianali e tecnici del lavoro creativo sono anche un modo per esorcizzare ogni eccesso retorico e ideologico. La militanza politica gli sembra un fattore di “disordine e confusione”. Di Hemingway apprezza proprio il “lavoro ben eseguito, la pagina asciutta, diretta ed essenziale, la tecnica, ultima dea che ispiri il tragico uomo occidentale”. Vede Vittorini come qualcuno di troppo milanese, una primadonna un po’ esibizionista e piaciona che può addirittura minacciare la stessa identità della casa, la sua piemontesità fatta di “concretezza e misura, equilibrio e ordine, ruvidezza e rigore”.

La vera grande passione della sua vita non è la narrativa, che nel ’48 arriva addirittura a delegare a Natalia Ginzburg, quasi infastidito da troppi testi che giudica mediocri (tra le poche eccezioni Calvino, per il quale ha un affetto di fratello maggiore). Sono i classici, il poter abbinare Sofocle a Spoon River, Whitman a Saba; è la traduzione dell’Iliade in cui segue passo passo Rosa Calzecchi Onesti con suggerimenti di straordinario acume; sono gli amati studi etnologici, antropologici e religiosi che animeranno la leggendaria collana viola, diretta con Ernesto de Martino (tra non poche tensioni). Una serie controcorrente, radicalmente estranea allo spirito dei tempi, perché sacrificava al deprecato “irrazionale”, addirittura sospettata di simpatie filo naziste, mal sopportata dal Pci per via di certi  autori più che sospetti: quel reazionario di Kerényi, quel fascistone di Mircea Eliade, lo stesso Propp non allineato alla linea  ufficiale dell’antropologia sovietica. Pavese è persino tentato  dall’idea di una scissione quando nel 1945 scrive di essere disposto a fondare una nuova casa editrice pur di fare i titoli che gli sono tanto cari e in cui sembra intravvedere addirittura una ragione di vita.

In quegli anni di contrapposizioni frontali, finisce per pagarla duramente con una solitudine più cercata che evitata, che rimane forse la sua vera cifra distintiva, come spiega bene Ferretti. Un  paradosso, in un uomo di tanti contatti, in un maestro di mediazioni devoto al lavoro collettivo. Con tutte le sue fragilità esistenziali, Pavese resta il costruttore che in dieci anni, e con una guerra di mezzo, ha saputo realizzare magistralmente lo spirito einaudiano, la dialettica tra classicità e modernità, liberalismo e marxismo, rigore metodologico e aperture sperimentali, storia e attualità. Un editore completo, un modello originale e ineguagliabile, un grande del ‘900 librario. Così meravigliosamente inattuale, così necessario, in tempi in cui le passioni intellettuali, la tensione progettuale, la sapienza artigianale e lo scrupolo filologico si avviano ad essere cari ricordi.

 

I giudizi 

Carlo Cassola (racconti giovanili): “Noiosetta  letteratura da rivista. Un bozzetto alla Fucini”.

Anais Nin (Figli dell’albatros): “L’ho trovata isterica, ignorante, snobista, uterina. Il che non toglie che magari avrebbe un certo successo”.

Ceram (autore del best-seller Civiltà sepolte): “Mi pare vivace, forse troppo”.

Silvio d’Arzo (Casa d’altri): “Non interessa affatto. A morte”

Saul Bellow (L’uomo in bilico): “Il protagonista non assurge a simboleggiare nulla di universale, ma soltanto il suo Self irritato”.

Vercors: “Un tipo insopportabile, con la sua aria di falso mistero. Sotto non c’è mica niente”.

Franco Fortini: “Antipatico, ma notevole”

Corrado Govoni: “Fallo fuori. Fu poeta crepuscolare di parecchio grido e valore, ma non sa certo narrare per i Coralli”.

James Joyce (Penny Poems): “Sono variegati di vocaboli e passaggi ritmici che non capisco e mi fanno rabbia. (In confidenza, tutto Joyce mi fa rabbia)”.

T.E. Lawrence (I sette pilastri della saggezza): “Dopo i primi capitoli, bellissimi, mi annoiavo a leggere le interminabili giornate e andirivieni e intrighi e caos di nomi esotici”

Il neorealismo: “Produce troppi libri noiosi, come tutte le formule”.

Il Premio Strega (da lui vinto nel 1950): “Si consolino i perdenti. I libri più importanti di una generazione non prendono i premi letterari”.

 

(“La Stampa”, 26 febbraio 2017)

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